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Inizio. Il punto di partenza del cambiamento.

Si comincia sempre tra un prima e un dopo. Questo è appunto l’istante che, come scriveva Platone, è “il punto di partenza di un cambiamento”

Inizio è sempre un “principio”, un abbrivio a qualcosa. Ma cosa vuol dire esattamente principio? Perché dobbiamo per forza “incominciare”? Esiste un collegamento tra il principiare e la comunicazione? Il cominciamento, dal punto di vista di un’azione, richiede sempre un coinvolgimento personale, se non addirittura intimo. Perché pretende una partecipazione delle componenti fondamentali: sensi, intelletto, ragione. Chi inizia un’operazione, dalla più semplice alla più complessa, pone in movimento i segmenti di sé che, come un domino, hanno una ricaduta su ogni fibra, nervi, muscoli. Inizio è pertanto uno scossone che provoca un cambiamento nella persona la quale, in quanto ha iniziato, e proprio in questo cominciamento (che a sua volta determina una condizione diversa dalla precedente) costruisce se stessa. Come riteneva Eraclito, noi siamo continuamente identità e differenza, anzi siamo soprattutto identità nella differenza tra elementi che si oppongono tra di loro.  Inoltre, ogni volta che qualcuno inizia si assume il rischio di una scommessa. Si assume il compito di diventare quel che vuole (e deve) essere. Ma questo inizio avrà effetti anche e soprattutto sugli altri e sul mondo circostante, dal momento che la costituzione del principio è sempre relazionale – non siamo isole, ma essere umani e, come tali, in comunicazione tra di noi. Volendo, possiamo stabilire due punti fermi. Il primo: iniziare è entrare nel gioco della possibilità. Perché inizio è scavalcare il baratro dell’ignoto per tuffarsi nel mare di ciò che è indeterminato. Kierkegaard direbbe che questo stato provoca angoscia, che “si può paragonare alla vertigine”. Un’angoscia che, lontano dal paralizzare e chiudere in se stessi, apre alla dimensione della fede religiosa. La possibilità è comunque anche vicina alla scossa di una “torpedine marina”, quella che provocava il tocco dell’ironia socratica. Iniziare è scuotere se stessi e gli altri. E questo è tanto più vero quando si tratta di comunicare la verità. Come cerca di fare appunto un giornale. Chi scrive dà inizio alla parola. Occorre infatti ricordare che la parola “è un gran signore, che con piccolissimo corpo e del tutto invisibile, divinissime cose sa compiere” (Gorgia). Chi usa la parola determina, in qualche modo, lo stato dell’ascoltare che, ricevendo la comunicazione, inizia a sua volta un cammino nuovo di modificazione di sé. Per questo motivo ho parlato di responsabilità. Chi comunica si assume l’onere del cambiamento, spinge la possibilità a diventare scelta concreta e, questo è un punto fondamentale, costruisce la narrazione del mondo. Perciò, e vengo al secondo punto, iniziare è sempre causare. Esiste un rapporto stretto tra i due termini, tanto è vero che, nella filosofia antica, principio, detto archè, causa realmente le cose esistenti, quale sostanza generativa (si pensi all’acqua di Talete). Ma il principio causa logicamente anche i nostri discorsi i quali, come sottolineava Aristotele, obbediscono sempre a tre principi basilari: identità (ogni cosa è uguale a se stessa), non contraddizione (è impossibile che una stessa cosa sia e non sia), terzo escluso (una cosa o è vera o è falsa). 

Un altro aspetto del principio è collegato al tempo. Si comincia sempre tra un prima e un dopo. Questo è appunto l’istante che, come scriveva Platone, è “il punto di partenza di un cambiamento”. Per intenderci, è nell’istante che si coglie il fondamento di ciò che è eterno. Il principio apre uno squarcio nell’eternità e si fa, come recita la Bibbia, un momento di realtà: creazione (“In principio Dio creò il cielo e la terra”). Ora, abbiamo detto che l’inizio è un agire causativo. Esso, come tale, è creazione e quindi partecipazione di ciò che, nella sua condizione più propria, è atemporale. Non solo. Col nostro principiare noi possiamo condizionare l’avvenire. Chi inizia infatti partecipa sempre all’indeterminato, a quella possibilità che richiede una scelta, e lo rende tempo. Chi pertanto comunica, signoreggia sul tempo. Non si torna più indietro. La parola, per quanto possa analizzare fatti che sono già accaduti, si proietta sempre al dopo, generando in chi ascolta/legge una costruzione per l’avvenire. Questa è un’altra assunzione di responsabilità. Perché, se la comunicazione crea il mondo presente, è altrettanto vero che essa pone le basi per il nostro futuro. È un inizio per i posteri. Basti pensare al Cristianesimo stesso che pone Gesù, quale Parola, presente nel principio (“In principio c’era la Parola”) e che, con la sua morte e resurrezione, impregna la storia dell’umanità fino alla parusia, ossia alla sua seconda venuta. 

Potremmo pertanto dire che l’inizio è sempre fine, conclusione aperta di un percorso che si fa ricerca. Perché la novità di una parola è appunto quella di essere quasi “aporetica”. Non perché non ha nulla di obiettivo da dire, ma perché deve spronare le persone alla fatica del pensiero, a quel “venerdì santo speculativo” per dirla con Hegel, che apre lo spiraglio in cui essere liberi. Una parola che non sia libera, non può mai essere vera. Non può mai essere inizio. Non può mai cambiare nulla. L’inizio è comunicazione ed ascolto di una grammatica relazionale che sensibilizza le nostre coscienze destando in noi la meraviglia, la quale dà origine non solo alla filosofia, ma è soprattutto sprone ad incamminarci sul difficile cammino della ricerca. Ricordando sempre che, come affermava Socrate, “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.

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