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Coinbase, il governo e le piccolissime imprese

A Wall Street è stata quotata Coinbase, la piattaforma “sicura in cui è facilissimo acquistare, vendere e depositare criptovalute quali bitcoin, ethereum e altre”. Così almeno è come si presentano sul sito (www.coinbase.com). Il prezzo di riferimento era stato fissato a 250 dollari e le azioni sono state oggetto di contrattazione sui 340 dollari ciascuna già il giorno prima della quotazione sui mercati privati. Nel corso del lancio si è arrivati a superare i 400 dollari per poi riassestarsi, sempre in giornata, attorno ai 350 dollari.

Dopo un formidabile entusiasmo, probabilmente le parole del presidente della Fed, Jerome Powell, hanno portato gli animi a raffreddarsi. Powell, infatti, rispondendo ad una domanda proprio sulla quotazione di Coinbase ha dichiarato che le criptovalute “non sono attivamente usate come strumento di pagamento” e sono “strumenti speculativi come l’oro”.

Coinbase, il primo exchange statunitense di criptovalute, ha chiuso il 2020 con un fatturato di 1,14 miliardi di dollari, in netto rialzo rispetto ai 483 milioni del 2019, con un utile netto di 322 milioni a fronte del rosso dell’anno precedente. Stando ai dati preliminari forniti dalla società in riferimento al 2021, parrebbe che il primo trimestre dell’anno in corso dovrebbe essere caratterizzato da ricavi per 1,8 miliardi, ovvero, il 57% in più di tutto quello fatto in un solo anno e vale a dire il 2020. L’utile netto dovrebbe essere compreso tra i 730 e gli 800 milioni e l’ebitda dovrebbe essere, sempre per il primo trimestre dell’anno, di 1,1 miliardi.

Numeri certamente sensazionali, non c’è che dire. Eppure, i commenti di Powell sono inequivocabili così come quelli dell’ex Ministro Giulio Tremonti che non è stato sicuramente tenero quando ha affermato “hanno quotato il nulla, certificato dal nulla” come riportato da Il Sole 24 Ore di giovedì 15 aprile.

Il nostro Paese si prepara a riaprire i battenti delle attività economiche lasciate sole a pregare e a non essere né ascoltate e né tantomeno si può dire che abbiano avuto una assistenza vera e degna di questo nome. Due settimane fa ci veniva raccontato dai governanti, politici e media che la fine del mondo per il nostro Paese fosse alle porte. In pochissimi giorni, nonostante un livello di vaccinazioni grossomodo stabile (i recenti incrementali aumenti non possono certo definirsi incredibili), una incertezza crescente su Astrazeneca e J&J causata dalla stupidità di chi non è in grado di comprendere che tre è minore di un milione dato il complesso, e un andamento dei contagi non sufficientemente speranzoso, la narrativa sulle riaperture si è capovolta. Tra pochi giorni si tornerà a vivere in un modo più civile se l’egoismo di ciascuno deciderà di traslocare verso altri lidi.

Sia chiaro, siamo contenti che si dia alle persone quello che è già loro ma a che prezzo? Intendiamoci, le pressioni dei commercianti sono state molto d’aiuto nell’opera di persuasione verso il Governo di consentire a un negozio di abbigliamento di aprire quando tutto il mondo fosse aperto con i ben noti zero controlli ma con qualche multa qua è là per far statistica. Però, questo repentino cambiamento puzza un po’: hanno pensato che con le prossime aperture la situazione dovrebbe essere definitiva nel senso che non sarà possibile dopo 15 giorni richiudere tutto?

Spero proprio di si anche se non mi pare che vi siano stati molti riferimenti a questo aspetto negli ultimi giorni.

Prima di salutarvi condivido con voi il commento del Presidente Federcasse (Federazione italiana banche di credito cooperativo e casse rurali), Augusto dell’Erba, sulla ottusità di qualcuno che vorrebbe lasciare alla distruzione le più piccole imprese perché non degne di continuare a vivere nonostante la loro dominanza e il ruolo che hanno nelle comunità italiane. Nello specifico, dell’Erba dice: “Una strategia che veda come linea di indirizzo una cosiddetta distruzione creativa veicolata dalle difficoltà create dalla pandemia a un grande numero di piccole imprese per produrre una concentrazione del capitale rischia di provocare un deserto produttivo. Con impatti sociali e costi complessivi a carico del contribuente e del benessere complessivo quasi certamente più elevati dei benefici ipotizzati. L’uscita dalla crisi va affrontata con un nuovo paradigma culturale.”

Buona domenica e buon caffè!

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Scritto da Vincenzo Lettieri

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