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La memoria: ricordo della vergogna

Il 27 gennaio si celebra “la giornata internazionale del ricordo in memoria delle vittime dell’Olocausto”, come è stato sancito dalla Risoluzione adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 2005 (già legge in Italia a partire dal 2000). Ogni anno “sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti” (Legge 20 luglio 2000, n. 211).

La data del 27 gennaio non è stata scelta a caso, perché in quel giorno le truppe sovietiche dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli di Auschwitz, liberando gli internati del campo. Questa data è diventata, pertanto, il simbolo della liberazione, ma anche della scoperta degli orrori e degli assassini perpetrati dai nazisti ai danni soprattutto degli Ebrei. Celebriamo questa data, affinché tutto ciò non si ripeta. Affinché non ci siano altri uomini “banali”, come ha scritto Hannah Arendt a proposito di Adolf Eichmann. Colonnello delle SS e burocrate nazista, esperto della questione ebraica, organizzò il trasporto ferroviario degli Ebrei nei vari campi di concentramento, permettendo, con il suo contributo, l’eliminazione di circa sei milioni di persone. Motivo per il quale fu poi condannato a morte nel 1962 nello Stato di Israele, dopo essere stato rapito dal Mossad da Buenos Aires in Argentina, dove si era rifugiato sotto falso nome insieme con la sua famiglia. 

È vero, come ha detto Elie Wiesel alla premiazione del Premio Nobel per la pace nel 1989, che “ogni tragedia è uno scandalo unico”, ma che l’Olocausto, “un nome così povero… è una cosa diversa”. L’antisemitismo, ossia la persecuzione degli Ebrei a motivo delle caratteristiche razziali, cioè per nulla – visto che tutti siamo esseri umani senza alcuna differenza – è stata una tragedia di cui occorre necessariamente conservare memoria, per non cadere nell’oblio che, parafrasando ancora la Wiesel, genera angoscia.

La memoria costituisce, in effetti, una parte essenziale del nostro io. Senza ricordi avremmo difficoltà a mantenere in piedi la struttura del nostro “se stesso”. Saremmo come quel teatro di cui parlava Hume, “dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni” (Trattato sulla natura umana), senza mai fermarsi e costituire la coscienza. La memoria è quel serbatoio nel quale si raccolgono le azioni, i sentimenti, le sensazioni che contribuiscono alla determinazione del genere umano. Quale parti di questa memoria collettiva, per dirla à la Jung, abbiamo continuamente bisogno di sederci idealmente accanto al fuoco e ascoltare i canti del passato della nostra tribù. Si può dire che, da questo punto di vista, non ci siamo allontanati dai nostri antenati, sebbene siano cambiati gli interpreti e i mezzi coi quali consegnare il ricordo, e fare tradizione. Abbiamo bisogno di quelle immagini del passato che, come aveva intuito Bergson, “si conservano solo per rendersi utili: a ogni istante completano l’esperienza presente arricchendola con quella acquisita” (Materia e memoria).

Ascoltare racconti e storie sulla Shoah serve soprattutto a risvegliare un qualcosa di profondo, che permette la costituzione della società civile. Sto parlando della vergogna. Non la intendo al modo sartriano, come sguardo esteriore degli altri su un me stesso espropriato, ma piuttosto come una virtù, una disposizione interiore a comportarsi in un determinato modo.

Al di là di tutte le discussioni etiche che si potrebbero trarre, mi preme qui mettere in evidenza un unico aspetto. La vergogna è essenzialmente il pudore (aidos) del mito di Prometeo, narrato nel Protagora platonico, da intendersi essenzialmente come rispetto reciproco che, insieme alla giustizia, serve “da ordinamento della città e da vincoli costituenti unità di amicizia”. Grazie a queste due virtù, che Zeus ha distribuite a tutti quanti, l’uomo può dirsi animale politico. La vergogna/pudore è pertanto presente nella coscienza di ognuno. Quasi una voce che ci sprona a fare i conti con la giustezza delle nostre decisioni – perché, non dimentichiamolo, pudore e giustizia sono strettamente collegate.

Chi fallisce la vergogna, si pone fuori legge, diventa vittima della banalità del male, e di conseguenza capace di commettere atrocità che nulla hanno a che fare con la pratica dell’umano. Senza vergogna/pudore non c’è più volontà morale, il trattare l’altro come fine e mai come mezzo (Kant), manca definitivamente l’interrogarsi continuo sulla garanzia della giustizia, viene a cadere il vivere civile e subentra uno stato di violenza ipertrofica ingiustificata. Per questo, sospendendo il pudore/vergogna, l’uomo si è svuotato dell’umanità, riempiendo quel vuoto con atroci delitti. 

Ecco il motivo per cui occorre ricordare. 

Perché solo la memoria ci inchioda alla vergogna, affinché una simile barbarie possa non ripetersi mai più. 

Perché solo la memoria, come ha detto la senatrice Liliana Segre, “ci aiuta… a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”. 

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