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L’attenzione: il “passaggio” da Sé all’Altro

“Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica, cioè l’esistenza dell’altro e non qualcosa di cui egli si prenda cura, aiuta l’altro a divenire trasparente nella propria cura e libero per essa” (Heidegger, Essere e Tempo)

“Tu hai scelto di vivere, io di morire”.

Così risponde Antigone alla sorella Ismene nella celebre tragedia omonima di Sofocle, attestando il proprio sacrificio, il sì convinto all’impegno in prima persona fino alle estreme conseguenze. Siamo di fronte alla rivoluzione che ti porta a morire per quello in cui credi. Ma si tratta anche di una passione d’amore: la responsabilità per aver seppellito il fratello Polinice, gettando poi della sabbia sul suo corpo e tributandogli “gli onori rituali”, proibiti dal re Creonte.

Antigone è consapevole che il suo gesto le sarebbe costato la vita, ma non le importa: “È bello per me morire in questa impresa”. È bello morire per ciò che è giusto, a prescindere dalla vuotezza delle consuetudini che, talvolta, sono tremende e perciò inumane.

Il sacrificio di Antigone è anche, e soprattutto, un gesto di attenzione.

Chi attende ha cura dell’altro. Si piega fino alle fondamenta della propria anima, cedendo un pezzo di sé per far spazio a qualcosa che lo renderà pieno, uno svuotamento (kenosis) per un riempimento sincero e appagante. Avere cura è il modo autentico in cui si sta con gli altri, quello spazio di apertura totale che può nascere da un piccolo gesto. Ma spesso, dai piccoli gesti nascono grandi imprese, come quella di Antigone. Come l’impresa di quell’uomo solo e disarmato – o meglio armato del coraggio, della determinazione, della voglia di rompere le catene che fino a quel momento lo avevano paralizzato – dinanzi ai carri armati a piazza Tienanmen. Come l’impresa dei “giusti” che, sfidando le furie naziste, hanno salvato la vita a milioni di persone. Ma anche come l’impresa di chi si sveglia ogni giorno e lotta contro le difficoltà della vita, finanche per potersi guardare allo specchio e vedersi pulito. L’impresa di chi ha una parola di affetto per chi è solo. L’impresa di chi ha un abbraccio per chi si trova in difficoltà. L’impresa di chi ha uno sguardo, una carezza nuova ogni volta…

Il gesto di Antigone, la consapevolezza del suo sacrificio è il segno del rispetto.

Rispetto che si deve a noi stessi, in primis, e agli altri; agli altri, in primis, e di riflesso a noi stessi. Perché il rispetto, come l’attenzione, è anch’esso duplice. È sempre un’azione che richiede apertura. Perché l’essenza si sostanzia nell’alterità, nella convinzione che il Tu deve diventare responsabilità, un impegno da custodire e da sup-portare nella molteplicità delle sue sfaccettature.

Attenzione e rispetto sono perciò un atto di arricchimento nella diversità, un cammino verso la chiarificazione della struttura che siamo.

Attenzione e rispetto, lo sguardo di pietà di Antigone per il fratello morto, sono il segno dell’amore. Amore: la massima disposizione a vivere il quotidiano insieme-con, non per il dominio, ma per “anticipare liberando” (Heidegger, Essere e Tempo). Liberazione che annulla la violenza del sé, dell’egoismo accentrato, dell’aver sempre ragione, della prevaricazione, dell’offesa, dell’annullamento. L’attenzione rompe le catene delle messe in scene bugiarde e posticce, delle finzioni che durano solo nel tempo della socialità, per poi svanire immediatamente nel privato. È una possibilità che sì, una concessione benevola mai costringente.

In un mondo dominato dalla logica individualistica che conosce solamente il proprio tornaconto, l’attenzione è un atto di sfida che può anche essere pericoloso. Come è accaduto a Socrate che, seguendo le parole del dio delfico, ha trascorso la vita a incontrare persone, a dialogare, a prendersi cura delle loro anime affinché esse partorissero la verità. Come è accaduto anche a Cristo, la cui vita è esempio concreto di attenzione, al punto da farne comandamento: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mc. 12,31).

Nello stordimento generale e innaturale della contemporaneità, pochi sono capaci ancora di gesti di attenzione. Per questo motivo occorrono esempi. Occorre che qualcuno spezzi le catene al prigioniero incatenato alle sue ombre, alla sua parvenza di realtà, dove non solo non c’è apertura verso l’altro, ma non vi è nemmeno coscienza di sé. Dove la vita è un triste susseguirsi di fantasmi disordinati e oppiacei, che ottundono i sensi e la mente.

Bisogna uscir fuori dalle caverne, parafrasando il titolo di uno scritto di Hans Blumenberg (Uscite dalle caverne).

Le caverne sono le nostre paure, il freddo che avvertiamo quando la vita è vuota. Le caverne sono le nostre sofferenze che paralizzano le azioni future, quando la fiducia in se stessi e negli altri sembra compromessa per sempre. Le caverne sono la mancanza di speranza, quando il mondo ti obbliga in un’unica direzione, una direzione che non vorresti prendere, ma a cui sei costretto a causa della necessità. Le caverne sono la depressione, che butta le persone a terra, togliendo loro la forza e la voglia di rialzarsi, perché pare che la vita abbia esaurito il suo significato.

Le caverne sono anche il sepolcro della morte, sono la sofferenza di chi ha perso i propri cari. Sono le lacrime versate che non vogliono consolazione, come Rachele che piange i suoi figli “perché essi non sono più” (Ger. 31,15).

Ma le caverne sono anche quel sepolcro vuoto, liberato nel passaggio alla vita, alla speranza, all’amore che è la Pasqua.

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