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Segreto: epifania dell’uomo.

I social network sono la manifestazione di ciò che siamo realmente?

Sul fregio meridionale dell’Ara Pacis si intravede una figura velata che invita al silenzio, a mantenere il segreto. Il segreto non si può comunicare. Avvolto da un mistero assoluto, può mostrarsi, togliendosi il velo, rivelandosi. 

Esistono due tipi di segreto. 

Uno che chiamerei relazionale; un altro ben più profondo, essenziale.

Il primo è una specie di confidenza: alcune persone decidono, volontariamente, di condividere un “fatto” da tenere nascosto. Qui non fa tanta differenza il tipo di contenuto. Può infatti riguardare il semplice pettegolezzo come l’azione più brutale. Per mantenere nascosto il segreto occorre velarlo con una barriera protettiva di menzogne. Tanto che, si può ben dire, il binomio segreto-bugia caratterizza la pratica di nascondimento a cui più siamo abituati. E coinvolge un ampio spettro di situazioni. Perfino la fede. Prendiamo ad esempio Abramo. “Nostro padre nella fede” viene messo a parte del sacrificio di Isacco. Mentre percorre la strada che porta al monte Moriah, scelto per compiere il comando divino, instaura col figlio un dialogo di bugie (“E Isacco: «Ecco il fuoco e la legna; ma dov’è l’agnello per l’olocausto?» Abraamo rispose: «Figlio mio, Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto»”, Genesi).

Kierkegaard arriva a postulare, in questo caso, l’esistenza di una lingua divina per spiegare il segreto della relazione assoluta con l’Assoluto. Non esiste più menzogna; la bugia lascia il posto ad un linguaggio che è incomprensibile alle orecchie umane, che si fa silenzio: “Abramo tace – ma egli non può parlare, è in questo che consiste la sofferenza e l’angoscia. Se infatti, quando parlo, io non riesco a farmi comprendere, allora io non parlo anche se parlassi ininterrottamente giorno e notte” (Timore e tremore).

L’altro tipo di segreto, essenziale, si basa invece sulla ri-flessione, intesa come una duplice flessione, di fuoriuscita da e di ritorno in sé. Questo movimento sostituisce il binomio segreto-bugia. La menzogna, in questo caso, non serve a nulla, anzi è deleteria per la rivelazione che, ricordiamo, resta la forma di esplicitazione più appropriata. 

Possiamo distinguere un segreto religioso e uno antropologico. 

Nell’antichità greco-romana esistevano le cosiddette religioni misteriche. La parola “mistero” deriva dal verbo greco myo che, propriamente, vuol dire avere gli occhi chiusi. Più che il linguaggio, le esperienze misteriche si basavano sulla visione. L’adepto, alla conclusione delle prove di iniziazione, otteneva una rivelazione divina (si pensi alla spiga nei Misteri eleusini, ad esempio). Si trattava dell’Epifania, nel significato letterale del termine. Nel Cristianesimo troviamo, invece, un esempio classico di ri-flessione. Gesù, consapevole della sua vera natura, la mostrava attraverso le sue azioni. Continuamente i Vangeli riportano passi in cui Cristo zittisce i demoni che “rivelavano” la sua divinità. Perché il misterioso segreto della sua esistenza doveva essere “svelato” altrove, sulla Croce. Quando il centurione pagano poté esclamare: “Davvero costui era Figlio di Dio” (Matteo).

La prassi è la migliore manifestazione dell’intimità. Che, nel nostro caso, è precaria. Siamo fragili, frammentati in centinaia di pezzi, ognuno dei quali sostiene il segreto della nostra natura. Qui non si tratta di dare una definizione. Non siamo un concetto: dire il nostro nome non renderebbe più chiara la questione. Anziché un giudizio sintetico, a noi serve uno analitico che resta appunto segreto. Indicibile. 

È strano a dirlo: il XXI secolo è il secolo della comunicazione, dei social network. Ma, paradossalmente, è l’epoca del segreto. Ci manca davvero quel che siamo veramente. 

Questo spiega, in parte, la corsa sfrenata all’esposizione, a postare qualsiasi nostro gesto su Facebook, Instagram e simili. A tal proposito, è fuorviante chiamare in causa il narcisismo, la volontà di autoaffermazione o il semplice desiderio di gratificazione. Io credo che qui ci sia in ballo qualcosa di più profondo. Il segreto della nostra essenza è così sovrabbondante che sentiamo il bisogno di condividerne un pezzettino con gli altri, e ricevere da questi un’immagine soddisfacente di noi stessi. Certo, in questo modo, riusciamo solo ad ingannarci. E anziché svelare il segreto, vi costruiamo attorno quella barriera di menzogne che lo rendono ancora più impenetrabile. 

Non sono contrario ai social. Chi scrive li utilizza allo stesso modo degli altri. Credo che i social  network siano uno strumento soddisfacente nel breve termine, per quanto non ci permettano di rispondere alla domanda di senso che abbiamo posto. Occorre poi tener conto di un altro fatto. L’esposizione è un’operazione volontaria. Ma non siamo solo questo e non sempre agiamo con consapevolezza. Talvolta capita di “fare” per istinto, in base alla fretta, di scegliere per caso. Tutto ciò raramente diventa oggetto di condivisione mediatica. In fondo, per quanto pervasivi, i social non sono onnipresenti né viviamo ventiquattr’ore sotto i riflettori, come in “The Truman Show”. E queste manifestazioni di noi stessi hanno lo stesso peso, se non addirittura superiore, di quelle che condividiamo coi nostri contatti.

Allora? Come se ne esce? Siamo condannati a non svelare mai il segreto di noi stessi? Davvero l’esistenza precede l’essenza? O anche: siamo padri o figli delle nostre azioni? È quest’ultima la domanda che dobbiamo continuamente porci per mantenere in piedi la ri-flessione, con tutti i risvolti mondani che comporta. Solo in questo modo sarà possibile costruire una predisposizione alla rivelazione, che sia anche la nostra epifania.

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