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Ancora sul Coronavirus: la dimensione comunitaria

L’importanza del camminare insieme per sopportare meglio gli eventi

Nel 425 a.C. (probabilmente), Sofocle mise in scena ad Atene l’Édipo re. Ad un certo punto, Édipo si rivolse al sacerdote di Zeus: “Il dolore di ciascuno ricade per voi soltanto su lui stesso, e su nessun altro; ma l’animo mio piange la città, e me e te insieme”. La città di Tebe era stata sconvolta da una terribile pestilenza. Tebe era stata visitata da un evento mortifero, da un accadimento nefasto. 

Tutti noi viviamo la dimensione dell’accadere, esposti sempre ad eventi che ci piombano addosso e di cui dobbiamo, molto spesso, sopportarne il peso, schiacciati dal macigno che siamo costretti a portare su, speranzosi che la sua ricaduta avvenga più vicino possibile al nostro stare-qui-ed-ora. 

L’evento che accade, qualunque esso sia, – e non possiamo non pensare soprattutto al Coronavirus e alle conseguenze/risvolti medico-sociali-economici – richiede da parte nostra resilienza, ma anche reazione. Reazione che è nel cuore stesso della nostra mutevole capacità di adattamento, sebbene essa mostri le ferite dell’incapacità di attuare il miraggio del gettarsi avanti nel pro-gresso illimitato, e limitante il mondo che ci circonda. In effetti, se ben riflettiamo, mai come ora stiamo sperimentando una frustrazione, delimitati tra le mura delle nostre abitazioni e sottomessi alle necessità della fragilità corporale. Necessità che accettiamo con un grande sforzo repressivo, perché siamo oltre la vita biologica (o nuda come si dice) che, però, è bene ribadirlo, è la nostra priorità fondante: la sua preservazione è la conditio sine qua non di ogni nostra azione libera, sociale, giusta. 

L’evento che accade, siamo vicini a Pasqua (anch’essa è qualcosa che capita sempre in ricordo, o attuazione – a seconda della fede – di un altro accadimento che avvenne un’unica volta), va assunto nella categoria della comprensione, nel significato letterale del termine, ossia come un prendere insieme. D’altra parte, se ci rivolgiamo al greco, la lingua filosofica per eccellenza, ci imbattiamo in due verbi che esprimono l’idea di “accadere”: symbaino (συμβαίνω) e symphero (συμφέρω). 

Possiamo cogliere tanto dalla loro analisi. 

Innanzitutto, il primo di questi, alla lettera vuol dire semplicemente “andare insieme”.  È meraviglioso pensare che qualsiasi evento – anche quello minaccioso e letale, qual è il Coronavirus – implichi che dobbiamo percorrere un tratto di strada congiuntamente, che la tragicità di quel che accade è più sopportabile (ma qui incrociamo il secondo verbo) se siamo uniti. Pertanto, bisogna mettere al primo posto la dimensione del syn (che vuol dire con – cum in latino). 

Secondo i Greci, l’individuo è tale se inserito in un contesto più ampio, da cui trae senso e direzione, a partire dalla dimensione cellulare (si pensi all’oikos aristotelico). È altrettanto evidente che, in quanto figli delle rivoluzioni sette-ottocentesche, siamo altrettanto paladini e difensori delle libertà individuali. Forse, però, oggi abbiamo completamente amputato la dimensione comunitaria in nome dell’ipertrofia dell’individuo – e chi dice che questo è un guadagno? 

Tornando all’analisi dei termini, filosoficamente non dimentichiamo il termine “accidente” nella concezione dello Stagirita, ossia l’insieme degliattributi che appartengono a ciascuna cosa di per sé, ma che non rientrano nella sostanza stessa della cosa” (Metafisica) – anch’esso desunto da symbaino (symbebekós). Anche l’accidente capita, appoggiandosi a quel sostrato che lo regge che è la sostanza. Sostanza che, pur essendo prima e quindi individuo, è sempre synolos, ossia “un tutto insieme” di forma e materia. E perciò già composta.

In breve, la semplicità più elementare richiede una comunanza, perché l’atomo è realtà-concetto impossibile a raggiungersi fisicamente e concettualmente. Ma un atomo è realmente o solo idealmente? Esiste un corpo che sia davvero individuo? Esiste una cellula che sia l’estremo limite individuale di ogni forma vivente? O non dovremmo considerare l’individuo, ogni singolo elemento, per quanto piccolo, nelle sue strutture compositive, con le conseguenze scientifiche e politiche che si possono trarre?

Ritornando al cammino insieme dell’accadere, esso ci costringe, volenti o nolenti, nel bene e nel male, a portare-sopportarne il carico il quale, sconfinando e invadendo il limite interno della sfera personale, diventa eccedente per noi. E per questo motivo abbiamo necessità per contrastare l’accidente – magnifico ossimoro – della dimensione del syn. Questo a prescindere se l’evento sia, come ho accennato, positivo o negativo. C’è una gioia che, espandendosi, può diventare incontenibile per una singola persona la quale cerca una condivisione nell’altro, concedendone un po’, in una sorta di partecipazione viscerale che è molto realistica e poco metaforica. Esiste, al contrario, il dolore insopportabile – pensiamo a chi sperimenta la degenza ospedaliera o subisce un lutto. Anch’esso necessità della presenza dell’Altro – uomo o Dio che sia – perché il macigno accaduto si assottigli trasformandosi in un vuoto meno colmo (quello pieno, purtroppo, si traduce nella malinconia o peggio nella rassegnazione). 

Ecco, pertanto, che l’accadere è un verbo di movimento – tali sono symbaino e symphero – visto che gli eventi vengono e non stanno mai fermi, passano, spariscono e poi ritornano, uguali o diversamente (chi può dirlo), accompagnando per sempre la nostra vita. Anche il Coronavirus passerà, come ogni altra situazione che cade davanti a noi. E quando succederà, a noi resterà ancora il contenuto due verbi analizzati: andare insieme, portare/sopportare insieme.  Resterà la dimensione del sociale, dell’altro/Altro. Resterà la comprensione del rispetto, la necessità di indugiare con lo sguardo su quello altrui, per agire responsabilmente: oggi stare accanto in absentia, domani farsi prossimità. 

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