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Coronavirus: la crisi e la Cura

Solo assumendoci la responsabilità della crisi mostreremo la nostra umanità

La parola crisi deriva dal greco krino, che vuol dire sia separare, sia giudicare. Sembra la parola esatta per comprendere la situazione che stiamo vivendo in Italia, e in tutto il mondo. L’emergenza del Coronavirus ci chiede certamente una capacità di discernere, di giudicare ciò che è opportuno fare, attenendoci alle norme igienico-sanitarie predisposte dal Governo (lavarsi spesso le mani; evitare il contatto ravvicinato con persone che soffrono di infezioni respiratorie acute; evitare abbracci e strette di mano; mantenimento, nei contatti sociali, di una distanza interpersonale di almeno un metro, ecc.). Si tratta, come si può notare, di una separazione dagli altri. 

In questa attività, che è principalmente un’astensione dall’attività, ecco che entra in gioco il giudizio, e di conseguenza la crisi. 

Potremmo ben dire che la crisi è una realtà ontologica che oggi caratterizza il nostro modo di essere, per quanto, per fortuna, non rientri nella definizione di chi siamo. Tutti siamo chiamati, responsabilmente, a vivere la crisi, come momento di giudizio-separazione. Giudizio che è da intendere sia nel suo aspetto attivo, come capacità di discernere la migliore soluzione da mettere in campo in un frangente pericoloso, sia in quello passivo, come essere valutati. In effetti, in tutto ciò che facciamo, siamo oggetto di valutazione da parte, innanzitutto, di noi stessi, e poi, non secondariamente – in questo periodo soprattutto – da parte degli altri.

Le nostre azioni hanno inevitabilmente ricadute anche sulle altre persone. Per questo, nel giudizio di scelta, è determinante l’ “io” quanto il “noi”, questo ad ogni livello. Se, ad esempio, svuotiamo un negozio per farci una scorta, la nostra azione provoca conseguenze negative su un altro individuo che, forse per mancanza di mezzi, o anche perché non è arrivato in tempo, non ha potuto comprare quanto gli serviva per mangiare, bere, o soddisfare le necessità primarie della vita.

Se non rispettiamo le norme di sicurezza, portando inconsapevolmente il virus ovunque, solo perché, per il momento, non è un evento che ha riguardato la nostra vita, mettiamo a rischio la salute degli altri. È chiaro che qui, parlando di giudizio, non intendo l’abbaiare contro chi è stato contagiato, o peggio le forme isteriche di razzismo contro fantomatici untori. In questo caso la razionalità, che definisce la nostra essenza, è messa da parte a favore degli istinti più beceri, a livello di anima concupiscibile platonica.

Per questo motivo, il detto mors tua vita mea è la condizione peggiore da prendere in considerazione. Perché, come spiegherò in seguito, la crisi non è un evento individualistico, ma collettivo. E coinvolge strettamente la nostra responsabilità di esseri morali. Motivo per cui, come ha sottolineato Kant nella Fondazione della Metafisica dei costumi, dobbiamo tener in conto, almeno direi io, due aspetti: “Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale” e “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.

Il secondo aspetto della crisi è la separazione. Non prendo qui in considerazione la rinuncia alle cose. Queste sono utilizzabili, come direbbe Heidegger; ci caratterizzano ma, per fortuna, non costituiscono la nostra natura. La separazione di cui parlo riguarda il rapporto con le persone.  Le norme ci chiedono di separaci dagli altri, sicuramente per rispettare e preservare la salute dei più fragili. Questo non significa lasciarli soli, segregarli, allontanarli dalla nostra vita come se fossero degli appestati. La crisi pretende una separazione fisica, per evitare che anche un semplice abbraccio possa far male, che un bacio diventi uno fardello pesante da sopportare. Non possiamo permetterci di trasformare l’affetto in una minaccia, e di umiliare, in tal modo, i nostri sentimenti. La crisi ci impone, nel giudizio di scelta, solamente una sospensione di vicinanza, una consapevole distanza che ci separa per avvicinarci nella comprensione, nella rassicurazione.

Dobbiamo attuare la separazione della crisi come compassione, come una sofferenza che si condivide e si accetta; come una “simpatia”, un’inclinazione benevola di vicinanza che, però, si esprime attraverso una lontananza. 

Questo vuol dire oggi vivere la crisi; questo vuol dire oggi aver Cura degli altri.

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