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La ri-costruzione dopo l’emergenza Fondamenti essenziali della partecipazione alla vita attiva

L’emergenza legata all’epidemia di Coronavirus ha palesato in maniera lampante e fondamentale la debolezza del nostro essere. Ci siamo scoperti fragili per quanto, e questo va scritto a chiare lettere, forti non lo siamo mai stati.  Sicuri che una manifestazione spavalda del nostro gettarci-avanti potesse colmare le mancanze strutturali che ci caratterizzano, e che ci definisco qui ed ora, abbiamo indossato la maschera della menzogna. Abbiamo finto, ossia plasmato noi stessi utilizzando un’altra sembianza, a volte consapevolmente, altre volte subendo la bugia, meglio inventata e propinata, adatta alla convenienza del momento e alla facilità di una non-scelta. Se davvero la verità non potrà mai essere raggiunta, comunque pare aver declinato allo sforzo di attendere la parmenidea “retta opinione”. Là, sotto il velo che copre le pur grandiose espressioni fenomeniche, le quali hanno qualificato in maniera “vivace” il secolo nuovo, si nasconde il vero significato della parola uomo, quale progetto di un’ininterrotta costruzione ancora da compiersi. Lungi dal pessimismo che potrebbe annichilire ogni determinazione di sé (lasciamo da parte Pindaro e il “sogno di un’ombra è l’uomo”), questa affermazione ci inchioda ad un’assunzione di consapevolezza, primo passo di una scala conscientiae verso l’avvicinamento sempre-in-avanti all’autocoscienza personale e collettiva. Insomma, in quanto esseri umani siamo obbligati finalmente a palesare la costruzione, a parteciparvi con possibilità e capacità, in una relazione sim-patica e simpatetica che destruttura le debolezze al fine di sopportarle comunitariamente. 

Una richiesta del genere risulta vitale soprattutto in questo periodo, nella fase della cosiddetta ri-costruzione. 

Ma che cosa vogliamo realmente “costruire di nuovo”? Una società che sia l’esatta copia della precedente e che, in quanto riproduzione di essa, per forza di cose più sbiadita e piratata? 

Credo che sia opportuno porsi la domanda su chi realmente siamo e cosa vogliamo essere, per poter strutturare il mondo, dandogli senso e direzione. Finora, nel nostro modo di essere e agire, ha sempre prevalso una componente egoistica e, purtroppo, egolatrica, che ha immortalato il singolo, ponendolo al di sopra delle relazioni intra-umane e intra-naturali. Padrone incontrastato di un miraggio distruttivo, l’uomo ha idolatrato la sua incapacità di fondare, abbattendo senza mai un progetto a lungo termine, in nome di un utilitarismo momentaneo e futile. Successo, denaro, potere, la triade che ha annientato l’umanità, creando una divisione, ad oggi quasi incolmabile, tra sfruttatori e sfruttati. Se esiste solo l’Io, non ci può essere spazio per l’Altro il quale, al massimo, può servire all’Io per raggiungere il suo unico e banale scopo: affermare se stesso.

In una sorta di alienazione continua che immortala la capacità in un altro Io finto, che altro non è, come si è accennato, una bugia meglio inventata. Quanto detto accade ad ogni livello: esiste sempre un Io che sfrutta l’altro, a sua volta sopraffatto da un altro più forte e così via. Una società – ma non può dirsi veramente tale –  dominata da una struttura monistica è destinata al conflitto perenne, mascherato talvolta da intese che sono appunto effimeri compromessi in attesa di una risolutiva vittoria. È chiaro che, in una situazione di emergenza quale abbiamo vissuto e quale potremmo ancora vivere, tale egoismo esplode, scaricando una virulenza contagiosa letale e incurabile. Nel corso della storia abbiamo già fatto molta esperienza di questa pandemia dell’oltraggio. 

Senza per forza svilire il discorso, propinando al lettore la favoletta che, per fortuna, l’umanità non è cattiva, e che tale visione di “guerra di tutti contro tutti” è hobbesianamente uno stato di natura che mai è esistito e mai esisterà, è possibile accennare ad un percorso diverso. In opposizione all’osanna dell’individualismo esasperato e esasperante i rapporti umani, la ri-costruzione di una società funzionante deve imperniarsi nell’Alterità. Parafrasando – e in parte alterando – il pensiero di Lévinas, la nostra esistenza non è qualcosa di impersonale e vuoto, colta solamente con una riduzione fenomenologica, tale da indurre soltanto spaesamento e vertigine. Perché in tal isolamento, specchio del soggettivismo già dato, l’uomo resta solo e impotente, incapace di agire perché irrelato nel suo abisso di anonimato. “Soltanto andando incontro ad Altri sono presente a me stesso”: esposizione che già in quanto tale è un gettarsi avanti. Si tratta stavolta di una riflessione, in cui l’umanità scopre (e costruisce) se stessa nella relazione con il prossimo. È l’Altro dunque il pro-getto da costruire, nel rimando continuo all’umanità che, di conseguenza, trascende in Dio (per chi ha fede). Un’essenza coessenziale, che si sostanzia nell’esistenza condivisa, dove il Tu manifesta pienamente l’Io, e l’Io trova la sua cifra dell’eccedenza nel Tu, e nella sua memoria. Per questo, e concludo, non ci sarà mai ri-costruzione senza una nuova costruzione, che metta in primo piano l’Alterità dei rapporti, in cui politicamente tutti siamo agenti attivi e non passivi. Per liberarci un po’ alla volta della menzogna della favola che racconta di un soggetto che può fare a meno di tutti, perfino dell’oggetto che gli sta davanti. 

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