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L’incontro

Fenomenologia dell’essere relazionale

“Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me […]. Il volto è presenza viva, è espressione […]. Il volto parla. La manifestazione del volto è già discorso […], è l’espressione originaria, è la prima parola: Non uccidere” (E. Lévinas, Totalità e infinito).

L’incontro è il momento di formazione indispensabile per poter vivere la vita come esperienza libera. L’incontro ci pone domande di senso, rispondendo alle quali riusciamo, seppur brevemente, a determinare l’essenza di noi stessi, quali soggetti comunitari. Come capita spesso, l’incontro è nascosto dall’abitudine del quotidiano. Non prestiamo attenzione a quello che la sorte ci pone davanti, persi nell’assenza di pre-occupazione di una vita inautentica e priva di significato, motivo per cui non siamo capaci di penetrare l’accadere che impegna la persona alla relazione, in vista della condivisione che supera l’egoismo individualistico. Perché nell’attenzione che si pone nell’osservare e prendersi Cura di colui che è dinanzi, che è contemporaneamente “di fronte”, ma anche “dentro” (tale è il significato etimologico di incontro), si instaura una partecipazione emotiva e concreta, veramente comunitaria.

Imbattersi nell’altro è un movimento di apertura intenzionale che, per quanto possa apparire inconsapevole, arrischia il nostro sicuro e quieto non-stare-con-gli-altri. È come una scommessa in cui, à la Pascal, si pone in gioco poco per vincere tutto. E quel che si mette in gioco in un incontro è l’io inconscio, che viene alfine riconquistato nella piena consapevolezza esistenziale.

Infatti, l’incontro è esistenza. È uscire da sé, trascendere se stessi per tornare all’efficace coscienza dell’in sé.

Se davvero possiamo decidere chi essere – l’essenza pare venire davvero dopo l’esistenza –, possiamo farlo grazie all’incontro, il quale destruttura la parvenza che fingiamo di essere. È vero che nel movimento verso l’altro, accade che simulazione e inganno appaiano dominanti. È vero che, quasi per un istinto di sopravvivenza – perché abbiamo difficoltà a mostrare chi siamo (se mai lo sappiamo) – manifestiamo l’immagine migliore che ci siamo costruiti o che vogliamo che gli altri vedano. Come in una bolla sociale, quale può essere anche quella dei social network, ci nascondiamo agli altri, ma principalmente a noi stessi per poi, alla fine, cedere di fronte alle contraddizioni delle menzogne dissimulate. E se anche la bugia è il principium di ogni relazione sociale (esemplificata nel protobugiardo del famoso racconto di Oscar Wilde, La decadenza della menzogna), essa è costretta a cedere il posto alla sincerità che si palesa – per noi – nuova e, soprattutto, esemplare. Quale fondamento stabile su cui edificare la costruzione di sé. 

Chi incontra, nell’emozione della prima volta – ogni incontro è sempre un’esperienza principiante che si ripete diversamente –, per quanto nella contraddizione della protezione, si pone nella dinamica del dare e del ricevere. Il vero incontro, che è dunque l’inizio di ogni rapporto, il principio di qualsiasi tipo di relazione, è essenzialmente un negotium di scambio talvolta alla pari, spesso invece squilibrato. Nell’incontro non ci può (o dovrebbe) essere, per quanto si finga, egoismo, spavalderia, solipsismo. Chi è autoreferenziale non ha sperimentato o, meglio, non vuole apaticamente sperimentare l’incontro, che ha la sua cifra nell’apertura totale. Certamente in alcuni incontri prevale la violenza, verbale e/o fisica, la volontà di prevaricazione, la reificazione del rapporto ridotto a porto sicuro per le proprie frustrazioni, ma tutto ciò tradisce il senso di quanto si è detto. Ossia, che incontro è correlazione tra uomo e uomo.

Bisogna inoltre ricordare che incontrare qualcuno è un coinvolgimento totalizzante a cui partecipano tutti e cinque i sensi: la vista, il principe del senso, quello che platonicamente permette la visione del bello, che si perde nello sguardo e negli occhi; l’udito, che si pone in ascolto della melodia delle parole; l’olfatto, che percepisce l’odore che proviene da chi sta dinanzi; il tatto, che sente la consistenza di un tocco; il gusto, che, apparentemente in posizione subordinata, assapora genericamente la presenza dell’incontro. Tutto ciò vale sia per quanto riguarda gli incontri quotidiani e concreti, sia per quanto riguarda l’incontro col divino (quanti “santi” hanno esaltato le sensazioni nel rapporto privilegiato con Dio!).

Quale mistica mondana, l’incontro cambia chi ne fa esperienza, ad ogni livello. E ciò apre la via al messianismo mondano e trascendente: “Sta all’uomo salvare l’uomo”, scriveva Lévinas in La laicità e il pensiero di Israele, “il modo divino di riaprire la miseria consiste nel non farvi intervenire Dio. La vera correlazione tra l’uomo e Dio dipende da una relazione di uomo e uomo, in cui l’uomo assume la piena responsabilità, come se non ci fosse Dio su cui contare”.

La situazione drammatica che stiamo vivendo ci pone di fronte alla solitudine e alla chiusura, ci costringe quasi a diffidare dell’altro. Pertanto, è diventata ancora più urgente e fondamentale la riflessione sul senso dell’incontro, che è impegno e responsabilità etica. Gli esseri umani sono relazionali e non monadi chiuse in se stesse, si strutturano comunitariamente dando significato a loro stessi – e al mondo circostante – tramite appunto l’incontro con l’altro. E l’altro che si incontra non è il nemico da combattere, ma lo specchio che riflette chi decidiamo di essere. Quando usciamo da noi stessi e ci relazioniamo, occorre sempre tenere a mente che, in questo doppio rimando, c’è in gioco la conquista di sé.

L’incontro è il primo passo di una relazione di fiducia che si rinnova sempre e mai è scontata. Non si dà una volta per sempre, ma va conquistata con impegno e sacrificio, anche cedendo la sovrabbondanza di egoismo che ci portiamo addosso come una scorza dura. Dobbiamo abituarci a essere-per-l’altro, non per una ingenua e fantomatica prestazione di altruismo fine a se stessa, ma per svelare un pochino l’umanità che portiamo e sopportiamo. La condizione necessaria e sufficiente per potenziare le nostre capacità umane, rendendoci uomini e donne implicate in una relazione comunitaria costruttiva, è solamente il tu che prevale sull’io. È lo specchio che riflette il volto dell’Altro, nel quale ci immergiamo per trovare sinceramente noi stessi. È la passione per l’umano, di cui parlava Abraham Joshua Heschel, il cui paradigma è “Amerai il prossimo tuo come te stesso”: “Tu coltivi l’anima coltivando l’empatia e il rispetto reverenziale per gli altri” (Il canto della libertà).

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