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L’essere relazionale dell’individuo

La caratteristica principale dell’essere che struttura la Persona è l’apertura all’altro e il ritorno in sé (ri-flessione)

“Riconoscere la verità come svelamento significa rapportarla all’orizzonte di colui che svela” (Levinas, Totalità e infinito).

Parmenide di Elea, il “padre venerando e insieme terribile” (Platone, Teeteto) della filosofia greca, ci ha indicato “il cammino della Persuasione”, ossia “che esiste e non può non esistere”: la via della necessità ferrea, una “legge sacra e giusta”, per cui “bisogna dire e pensare che ciò che è esiste”. Nella profondità dell’anima, per quanto sia impossibile raggiungere i suoi limiti, troviamo una Verità che può soltanto svelarsi e rivelarsi, assolutamente completa in se stessa. Tale Verità non nascosta ci invade, determinando qual Essere il nostro vero essere, per quanto oggi il concetto di essere sia “il più oscuro di tutti” (Heidegger, Essere e Tempo). Senza addentrarci nel problema della metafisica come oblio dell’essere, occorre qui prendere in considerazione l’aspetto dell’uomo-Esserci, nel suo relazionarsi al mondo e, in special modo, agli altri individui.

L’individuo è certamente un concetto limite, che pone in risalto non tanto la singolarità – e la Singolarità, come insegnava Kierkegaard, è sempre apertura, seppure al divino – quanto la negazione della comunità. L’individuo in sé non esiste. Non può esistere. Perché “individuo” presuppone ciò che non si può dividere, ossia la realtà prima oltre la quale c’è il Nulla. Ma, se si riflette bene, è lecito convenire che non si dà un minimum assoluto, individualistico, monadico, ma una corrispondenza polimorfica e polifunzionale che si adatta alla realtà circostante (già la cellula è tale). Un adattamento che ha permesso di sopravvivere nella natura che, talvolta, per usare categorie fin troppo umane, è apparsa niente affatto benigna. E tale adattamento è la sfida che affrontiamo ogni giorno, è lo sguardo di speranza che si affaccia sul futuro. Sebbene, come sempre, dipenda appunto da un noi, e non da un io.

Sembra paradossale, ma siamo quel che siamo grazie all’altro. Come un’immagine riflessa che ci sta di fronte e ci rende partecipi di noi stessi. Partecipazione da intendere in senso fisico, perché ogni volta ci appropriamo di un pezzettino del puzzle che siamo, consapevoli che non lo completeremo mai. Questa frustrazione appagante è l’unico modo per sbirciare al buco della serratura e vedere l’Essere. La nostra apocalissi, la rivelazione sincera e serena del Sé. Iniziati al mistero di noi stessi, scopriamo l’altro. E l’altro scopre noi. Entrambi ignari dell’Essere obliato, ma entrambi portatori del segreto rivelato. Sparsi frantumi di specchio, difficile da mettere insieme, ma ognuno sguardo concentrato e concreto di senso sul mondo, sull’io, sull’anima. Noi stessi evento di appropriazione dell’Evento; il chiasma, “ogni rapporto all’essere” che “è simultaneamente prendere ed essere preso” (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile).

Come insiste buona parte della filosofia novecentesca, siamo coscienza intenzionale, che si struttura nell’apertura e nella relazione, nel per-sé. È il nostro spazio di libertà più autentico, attraverso il quale è possibile cambiare il mondo e dargli un significato. Un Essere-per-altri che non è, sartrianamente, un’esperienza negativa: la vergogna, cioè, del sentirsi guardati da uno sguardo che immobilizza la mia trascendenza, che pietrifica la mia libertà trasformandomi in un oggetto. Con la conseguenza inevitabile di giungere al conflitto, “il senso originario dell’essere-per-altri” (Sartre, L’essere e il nulla).

Lo spazio dell’apertura, del pro-getto ci destruttura, scomponendo le false credenze, e lascia la traccia da cui partire per realizzare un In-sé che è sempre per-Sé. E se questo vuol dire addio all’essere è un rischio che va assunto; se questo vuol dire sacrificare l’oggetto per recuperare il soggetto, è una scommessa che va fatta. Il rapporto con l’altro non si risolve nell’effimera, narcisistica esposizione dell’apparenza per ricevere in cambio solamente un’inutile gratificazione esaltante. In tale scambio (se può essere detto tale) non c’è arricchimento di sé, né la scoperta della cifra che portiamo, del symbolum che può rivelare la Verità. È solamente una copia sbiadita del percorso di apertura sincera che si sostanzia nella cosiddetta riflessione. Ossia nel duplice movimento che, prima, ci fa flettere verso l’altro e, di rimando, nella nostra interiorità: “Soltanto andando incontro ad Altri sono presente a me stesso” (Lévinas, Totalità e infinito).

Alla fine, ci rendiamo conto che l’inferno non sono mai gli altri, ma sempre l’io quando declina se stesso in forme socialmente addomesticabili. Quando l’io si esibisce, scegliendo di essere quel dormiente che non sa né ascoltare né parlare, perché in fondo non ha capito cosa vuol dire veramente comunicare. Ossia rendersi comune.

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