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La provocazione del limite

“Inoltre ogni cosa limitata trova il suo limite sempre rispetto a un’altra cosa, con la conseguenza che non ci sarà più limite se sempre una cosa deve essere limitata da un’altra” (Aristotele, Fisica)

Buona parte della filosofia descrive l’umanità nella sua pretesa di superare il limite, interiore ed esteriore, che ingabbia la mondanità, impedendo il progetto sempre futuribile, ma mai presente, di attuazione del Sé. In questa deiezione, per dirla alla Heidegger, si nasconde un’assunzione di consapevolezza nostalgica, quasi un istinto di superamento per la sopravvivenza. Pare di scorgere la nostra identità in questa corsa affannosa all’oltrepassamento, dal momento che, per noi, non sembra valere il divieto “Ne plus ultra”, scolpito sulle colonne d’Ercole dell’anima. 

Da Fichte abbiamo imparato la relazione, per nulla compassionevole – pur se è esatto usare il termine relazione – tra l’Io e il Non-io che si erge quale limite limitante di ciò che pretende di non essere afferrato al di là del limitato. Dovremmo forse parlare, più correttamente, di attività, come fa con consapevolezza il filosofo tedesco, per non scadere nel concreto, ossia in ciò che è un coagulo, fissato una volta per tutte; per questo motivo, anche materiale di contenuto. L’idea di Fichte non assomiglia affatto al fotogramma di una pellicola, che fissa il momento preciso. La sua intenzione è esattamente l’inverso: presentare un’azione continua tra il limite e il suo superamento; tutto ciò pare quasi trasformarsi paradossalmente in un’inazione. 

Ci chiediamo: cos’altro è l’inazione se non un’azione che avviene dentro di sé? Perché è solamente nell’intimità che essa esprime la sua massima energia, e per tale motivo si sgonfia e finisce col non fare più nulla. Nessuna sintesi, che vuole riassorbire il negativo – ma il limite non è tale – riesce a cogliere un rapporto che nasce come distacco/opposizione e che resta (e vuole rimanere) sempre tale. Pertanto, è sbagliato considerare il limite misura, che equilibra ciò che appare, o vuole apparire, opposto e inconciliabile. Semmai è provocazione, che sprona il chiamato alla perfettibilità, secondo la dinamica dell’azione/inazione di cui abbiamo detto.

Cosa intendiamo per oltrepassare il limite? Per quanto accompagnato da un senso di inadeguatezza, o più esattamente di incompletezza, il limite non è solo contorno che circonda come un orlo un contenuto, a volte difficilmente definibile perché, in quanto attività, sfuggente, ma è anche forma del contenente. E la forma è pur sempre ciò che era da essere, perciò ciò che sarà. Inoltre, l’abbiamo già detto prima, il limite non ha alcun rapporto col negativo, col male. Anzi, la limitazione costituisce la substantia di quel progresso verso la perfetta libertà, che è l’obiettivo del nostro progetto. Attenzione: substantia non è da intendersi in senso fisico, perché ormai è ovvio che nessun sostrato tangibile  potrà mai rimanere in fondo al filtro della spoliazione continua degli accidenti. 

Esiste insomma una relazione reciproca tra limiti (la questione si pone qui): essa è il segno più visibile, per quanto difficilmente identificabile, e impreciso – mai assoluto – dell’azione che regge la nostra società. Pare un dono, come scrive Seneca nel De beneficiis, che passa continuamente tra donatore e ricevente. Un circuito che segue un percorso interiore che si fa esteriore, perché implica un’intimità impegnativa coinvolgente l’io e il se stesso, l’io e il mondo, l’io e l’altro.

Assumere il limite, accogliendolo come dono di sé a se stesso, contribuisce a identificare, almeno per un istante, ciò che resiste ad ogni determinazione. Divenendo visibili a noi stessi, possiamo assumere posizione, nel senso letterale del termine, trovando posto. In tale fase si riflette la relazione con l’altro, in quella reciprocità caratteristica dell’umanità che assume il limite come cifra dell’essere qui presente. È un’assunzione di responsabilità. Perché il limite, avendo la struttura della donazione perenne, implica quella dialettica mai sintetica di cui abbiamo accennato prima. 

Il limite è una denuncia alla ipertrofia soggettivistica, mascherata dalla filosofia del successo, che caratterizza la società contemporanea. È un atto di accusa rivolto a chi, fregandosene degli altri, si costruisce regole che, anziché tirare una linea diritta verso la salvezza, lo portano tra le braccia del nulla. È vero che il limite impone la lotta, non per l’autoaffermazione, ma per la vita. Vita comunitaria, mai singolare. Perché, se resta solo l’Io, non ci sarà più limite, ma solo opposizione interiore: schizofrenia, credere di non essere padroni in casa propria. Per evitare un nichilismo assoluto che annullando non il limite, ma l’illimitato che riusciamo solo talvolta a limitare, ci renderebbe folli, bestie, inumani, occorre prendere in considerazione quella che si presenta come debolezza, ma che ha la forma della perfezione. Ogni altro sforzo è destinato al naufragio. E non vale tanto credere che, nell’ipercritica convinzione che l’inferno sono gli altri (l’altra faccia del soggettivismo sfrenato), presto ci sarà un evento (o un post evento) risolutore che scioglierà il limite quale noi siamo, per donarci una nuova indegnità: che la realizzazione di Sé passa attraverso la distruzione dell’altro.

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