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Le camicie di flanella salveranno l’industria

C’è un aneddoto nel libro “Dialogo sulla piccola impresa” di Robiglio e Orioli sull’architetto milanese Vico Magistretti. A pagina ventisei si riporta la domanda che qualcuno gli pose su come facesse a realizzare le sue famose sedie. La risposta, di primo acchito, può apparire strana perché di certe attività siamo sempre portati a ingigantirne i meccanismi, perdendoci immaginando chissà cosa. Invece la semplicità è quella che conta ed è ciò che conduce al risultato. Quindi, la stranezza si supera entrando nel reale. “Io le faccio per telefono. Le disegno su un pacchetto di sigarette e poi chiamo in Brianza. Laggiù, all’altro capo del filo, trovo sempre qualcuno che queste sedie me le fa”.

Siamo alla fine del 2021. Mancano pochi giorni. La pandemia non ci ha ancora lasciati ma riusciamo a gestirla, grazie ai vaccini (dato oggettivo, non è un’opinione), un poco meglio rispetto al 2020. Siamo alla fine di un ciclo economico durato quasi quindici anni in cui abbiamo fatto i conti con una crescita economica bassa, un’inflazione inesistente, rendimenti obbligazionari in calo, pochi investimenti. Semmai ce ne fosse stato bisogno, una volta in più abbiamo capito di quanto l’Occidente abbia bisogno della manifattura Made in Asia a cui abbiamo demandato molte attività ritenute di scarso valore aggiunto salvo poi capire, soltanto adesso, che pur se insignificanti ai nostri occhi dell’epoca, oggi sono ingranaggi fondamentali per le nostre attività. 

Chip, semiconduttori, materie prime, logistica.

Il 2021 è stato l’anno che ci ha confermato, in buona sostanza, i pericoli dell’import quando le cose non vanno bene e si bloccano. Dopo anni in cui abbiamo approfittato di merci a basso costo prodotte dall’altra parte del mondo, ci siamo adagiati ai vantaggi messi a disposizione da quei Paesi come Cina, India, Bangladesh e così via che sono diventati il riferimento industriale nel mondo. Entrato a gamba tesa nelle nostre vite un elemento non prevedibile come il Covid-19, siamo andati in difficoltà: costi aumentati dei trasporti, carenze di materie prime, ritardi nelle consegne, chiusure degli stabilimenti.

Esiste un prodotto che lo si trova abbastanza in giro nei negozi e sui banchi dei mercati nel corso dell’inverno. Si tratta della camicia di flanella. Capo in genere con vestibilità regular che copre il corpo di persone più in là con l’età quando il freddo si fa sentire o giovani abbastanza cool da non preoccuparsi di avere indosso la camicia del nonno a quadrettoni. Si tratta di una camicia generalmente economica che può arrivare a costare al consumatore finale anche 15/20 euro. Parliamo di un capo la cui produzione è stata demandata negli ultimi dieci anni ad aziende asiatiche. Fino al 2020, già a inizio settembre un negoziante che avesse voglia di anticipare l’assortimento “pronto” invernale del suo negozio e del suo banco, poteva acquistarne in quantità presso i vari rivenditori di zona. 

Nel 2021, invece, le camicie di flanella del nonno sono giunte dall’Asia nei porti nostrani solo a metà novembre e in quantità inferiori rispetto a quelle ordinate dai rivenditori.

Nel settore c’è stato, durante l’attesa incerta di arrivo, qualche tentativo di provare a produrre qui in Italia queste camicie che sono davvero molto richieste. I vecchi produttori, oggi commercianti, hanno avuto l’idea, hanno smosso qua e là le cose recuperando in giro qualche macchina utile allo scopo e presto hanno dovuto fare un passo indietro e attendere sul molo il container che fosse scaricato dalla nave. Qualcuno si è fermato durante la spasmodica ricerca di macchine da cucire e di soldi per acquistarle o prenderle in prestito. Qualcuno ha trovato le macchine ma non le persone in grado di mettersi subito all’opera. Qualcuno ha trovato soldi, macchine e persone, ha avviato la produzione e ha dovuto fare comunque un passo indietro perché non più abituato alla complessità di un’organizzazione e alla responsabilità di garantire un prodotto degno alla clientela.

Tre problemi quindi: difficoltà a reperire in poco tempo risorse da investire, una quasi scomparsa di manodopera specifica, incapacità nella gestione delle complessità perché dai giochi si è rimasti fuori per troppo tempo.

Non si è trattato del tentativo di avventurieri di divenire imprenditori in una sera. Si è trattato della voglia di persone di tornare al loro passato ma hanno trovato la porta chiusa e hanno dimenticato come aprirla.

Ecco il tema.

Siamo in una fase di transizione e il comun denominatore è l’ambiente. La rivoluzione che vedremo attuata è calata dall’alto per rispondere all’urgentissima esigenza di pulire questo nostro mondo. C’è bisogno, però, di fare i conti con la realtà e con il rischio delle contraddizioni. Di fronte a un 2022 che si apre con all’orizzonte una politica monetaria restrittiva, un andamento dell’inflazione che rimarrà comunque alto a causa dell’aumento del costo delle materie prime, dell’energia e dei trasporti, un nuovo ciclo di investimenti, è importante che si apra una riflessione sull’industria quale patrimonio nazionale da proteggere e valorizzare. 

Lungi dall’apparire contrario alle importazioni e alla globalizzazione (magari giusto un pò se non governata da regole chiare e uguali per tutti), c’è urgente bisogno di andare oltre alla miopia che ha caratterizzato in parte quest’anno e fare i conti con la realtà. Nell’attesa che si vedrà la messa a terra del PNRR e la gestione del passaggio da un ciclo economico a un altro, è interessante capire che valore e visione si darà all’industria nei prossimi anni e che sostegno si darà a chi è già imprenditore e a chi vorrebbe esserlo.

Oggi Vico Magistretti farebbe qualche difficoltà ad operare come dichiarato. Questo solo perché i costumi sono un tantino cambiati. Farebbe fatica a trovare qualcuno disposto ad immaginare con lui dall’altro lato del telefono una nuova sedia. Minimo dovrebbe mandare il bozzetto su whatsapp e poi una e-mail con i dettagli tecnici. Alla fine, però, il risultato lo otterrebbe perché si tratta di un prodotto che ha un mercato particolare di riferimento anche se i conti con carenza materie e prodotti debbono farla tutti.

Chi non può essere abbandonato, soprattutto in questo momento, è chi ha voglia di fare impresa (la startup nel senso comune di oggi è una cosa a mio parere diversa), quello che vuol fare le camicie di flanella in buona sostanza. Non può essere abbandonato nella ricerca di risorse finanziarie e umane. Non può essere abbandonato nella gestione della complessità se decide di creare le basi per occupazione e PIL nel Paese.

Se vogliamo vincere il Covid-19 non possiamo pensare solo alla sanità. C’è bisogno di immaginare anche un dopo affinché la brutale lezione subita non abbia lasciato gli sguardi indifferenti. C’è bisogno di ricostruire i distretti industriali e di mettere in condizione, chi vuole, di ripristinare l’attività di impresa o di crearne una nuova.

Questo, anche questo, bisognerebbe fare a partire dalla necessità di dichiarare l’industria patrimonio nazionale.

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Scritto da Vincenzo Lettieri

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