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Tazzulella con Giuseppe Soda, Dean di SDA Bocconi

Da qualche giorno confermato Dean di SDA Bocconi School of Management, la scuola di direzione aziendale dell’Università Bocconi che fu fondata nel 1971 da Claudio Demattè, Giuseppe Soda, classe 1967, è professore ordinario del Dipartimento di Management and Technology dell’Università Bocconi. È considerato tra i principali esperti di quella che viene definita come la “Dinamica dei Network” che in tempi di lockdown, più o meno espliciti, assume ulteriore rilevanza ai fini sociali ed economici per l’individuo e, ovviamente, le società.

Sposato e papà di due ragazzi, il professor Soda ha svolto e svolge un lavoro di ricerca e di divulgazione scientifica soprattutto sui temi organizzativi e sul loro allineamento con le strategie aziendali.

A diciotto anni ha cominciato a studiare economia all’Università Bocconi (sarà una costante nel corso del suo percorso accademico e professionale) con l’idea che “qualsiasi piano per una società equa parta da lì”. Con un dottorato di ricerca in Business Administration and Management, indaga sul comportamento umano nei contesti organizzativi seguendo il percorso della teoria dell’organizzazione: “una disciplina che comprende economia, psicologia, sociologia”.

Dopo il dottorato, nel 1998 va a Pittsburgh dove per due anni è Visiting Research Fellow alla Carnegie Mellon University. Da quel momento in poi comincia la sua grande avventura che lo porterà sino al ruolo che ricopre oggi per il quale dice: “la School of Management è il luogo in cui sei più vicino alla realtà. Gli studiosi non dovrebbero chiudere il mondo ma mantenere una conversazione continua con coloro che utilizzano i risultati delle loro ricerche”.

Gioca a calcio nella squadra degli Alumni Bocconi, gli piace navigare per il Mediterraneo e viaggiare. Per lui è un’attività molto simile alla ricerca. Figlio di padre insegnante, pone molta enfasi sulla necessità per gli accademici di essere costantemente appassionati all’insegnamento per poter svolgere al meglio la propria funzione.

Non faccio in tempo a chiedergli se si ritrova nel profilo tracciato che, con orgoglio e passione, aggiunge: “mio padre, insegnante ottimista che credeva molto nell’idea che il sud sarebbe rinato con la cultura, ci ha portato a vivere in Calabria, sua regione di origine. Sono nato, infatti, a Gorgonzola (Milano) e all’età di cinque anni sono andato a vivere lì con la mia famiglia. Di fatto sono cresciuto in Calabria. Pur essendo “cittadino del mondo” colloco lì, in quei luoghi, la mia identità. Essere cresciuto in un posto complicato, del sud Italia, in un paese di ‘ndrangheta ed esserci arrivato sulla base di una forte motivazione che aveva mio padre, è stato davvero prezioso per il mio percorso. Credo che abbia giocato un ruolo molto importante nella mia vita.”

E come è andata per il Sud? È cambiato qualcosa da allora?

Quando mio padre è andato in pensione, alla festa di pensionamento, c’erano circa duecento ragazzi, tutti cresciuti con lui, che avevano trovato una strada nella vita. Questo dice che la visione di mio padre era giusta. Il sud è stato capace, negli anni, di sviluppare il capitale umano. Lo vediamo con le università, la scuola e così via. Ciò che è mancato, probabilmente, è la capacità di creare quel tessuto che avrebbe poi permesso ai ragazzi formati di rimanerci a vivere. L’educazione non è stata sufficiente, al sud, per poter consentire ai propri giovani di fare il salto definitivo risolvendo così la questione meridionale.  

Nella sua pagina personale sul sito dell’Università, condivide quella che definisce “la sua poesia preferita” ovvero Invictus di Henley che, tra l’altro, era anche una delle preferite di Nelson Mandela. È molto difficile scegliere come rappresentativi alcuni dei suoi versi. Ci provo lo stesso: “Nella feroce morsa delle circostanze | non mi sono tirato indietro né ho gridato per l’angoscia. | Sotto i colpi d’ascia della sorte | il mio capo è sanguinante, ma indomito. Professore, lo scorrere della vita ci pone davanti a numerose sfide. Quali sono e dove si trovano gli strumenti per cogliere l’essenza della bellezza delle cose, impegnarsi e costruire un percorso come quello che lei ha costruito?

Su questo campo non voglio insegnare niente a nessuno perché ciascuno porta sulle proprie spalle il suo zainetto dove ha accumulato le esperienze di una vita. Pur essendo un convinto sostenitore del fatto che le istituzioni pubbliche debbano sostenere chi rimane indietro, penso che nelle storie le persone giochino un ruolo importante. La motivazione, la determinazione e la perseveranza sono primarie. Credo che molte delle storie individuali siano spiegabili alla luce del “chi sei tu” piuttosto che del contesto in cui hai vissuto. Capisco che i contesti possano amplificare o mortificare i talenti. Lo so. Però fino a un certo punto. Non sono uno di quelli che pensa che siccome “il contesto fa schifo” allora per forza anche noi dobbiamo riflettere il contesto. Sono certo che quest’ultimo sia importante, però, sono altrettanto certo che le persone si possano in qualche modo liberare. Molta parte di quello che uno può fare nella vita dipende da sè stessi e da quello che si è disposti a mettere in campo: sacrificio, determinazione, abnegazione. Sembra quasi una retorica calvinista ma è così. Se uno si impegna, tiene duro, da qualche parte va, anche se il contesto è difficile. Gli strumenti, quindi, si trovano dentro sé stessi.

Non vorrei sembrare pessimista, professore, però ci sono dei contesti davvero molto duri e mortificanti.

Lo so. Tant’è vero che molte persone fuggono via proprio perché dentro quei mondi non riescono a starci.

A volte uno ci prova ma viene sempre più risucchiato dalla durezza di certe situazioni.

Noi eravamo quattro fratelli e solo uno è rimasto in Calabria. Io e gli altri miei fratelli siamo andati via non per vezzo ma perché le condizioni di allora non erano tali da permetterci di restare. In questo senso, la fuga è inseguire le proprie ambizioni, i propri desideri. Ovvio, devi averli altrimenti rischi di rimanere impantanato. Non accetto affermazioni come: “purtroppo è andata così perché il contesto era così”. Dunque, o insegui le tue aspirazioni oppure resti lì, le segui da lì combattendo per migliorare quello che c’è, altrimenti non ha senso.

Professore lei si occupa di relazioni. Oggi i social veicolano una parte importante di queste. Che rapporto ha lei con i social? A quali dei tanti è iscritto?

Per scelta ho un rapporto neutrale. Se mi faccio troppo assorbire, poi, sono poco oggettivo per studiarli. Ho un account Linkedin. Niente Facebook e Instagram. Ho Twitter, che utilizzo per seguire quello che accade nelle sfere di politica internazionale perché non ho sempre la possibilità di seguire la Cnn e altri. Per me è una specie di spioncino su quello che accade nel mondo. Ovvio, lo uso anche per le mie passioni come Bruce Springsteen. Diciamo che ho un rapporto con i social da osservatore esterno e non da partecipante.   

Relazione implica anche e soprattutto movimento. Il lockdown l’ha ridotto moltissimo. Come ci si muove stando fermi?

È innegabile che la tecnologia sinora ci sia stata molto utile. Mi sono spesso chiesto come sarebbe stato un lockdown negli anni ’60. Quando ho cominciato la mia carriera, internet non c’era. Quando ho fatto il dottorato passavo la mia vita in biblioteca a scorrere libri, articoli, riviste. Oggi non ci vado più e utilizzo risorse online. Sotto questo punto di vista, la tecnologia consente di essere sempre dinamico anche se sei chiuso in un ufficio, in una stanza. Quello che conta è non far star ferme le idee. Fisicamente puoi anche correre, come ha fatto quel maratoneta cinese, attorno al letto per non so quanti chilometri. L’importante è non fermare le idee. Ci si muove facendo correre le idee attraverso la conoscenza e da questo punto di vista la tecnologia aiuta.

Da un po’ di tempo a questa parte, anche con la brusca accelerata del Covid-19, siamo di fronte ad una trasformazione sociale. L’attenzione alla complessità dei problemi, secondo lei, sta crescendo con i fenomeni in atto oppure no?

La mia sensazione, dal dibattito delle ultime settimane, è che in realtà ancora una volta non si è capita la portata, dal punto di vista della complessità, della gestione di una pandemia in un Paese moderno. Continuo a vedere richieste di ricette ideali nel trade-off tra salute ed economia. Ci sono dei trade-off molto complicati, a volte irrisolvibili. Complessità vuol dire questo: decine di problemi tra loro interconnessi. La richiesta di bacchette magiche o è retorica che guarda al consenso sul piano politico oppure è non aver capito cosa sia la complessità.

Parrebbe che, in linea generale, il governo badi molto al consenso. In questo momento non bisognerebbe tenerne conto anche se le decisioni da prendere sono davvero difficili. Bisognerebbe assumersi le responsabilità e tirar dritto.

Di fronte alla complessità ci vuole l’assunzione di responsabilità. Il trade-off non si risolve con il compromesso ma con la consapevolezza del problema e l’assunzione di responsabilità. Se esiste un trade-off tra salute ed economia, che esiste oggettivamente, allora consapevoli della sua portata occorre decidere. Pensare di dare un colpo alla botte e uno al cerchio non porta da nessuna parte.

Fake news e social. Ben Smith, uno specialista di media che prima lavorava a Buzzfeed e ora lavora al New York Times, dice che è tornata l’autorevolezza di una notizia verificata, studiata e pubblicata sui media tradizionali a differenza di quanto avveniva sino a qualche tempo fa dove i social erano il motore della diffusione di tutto con conseguente influenza su parte dell’opinione pubblica, specie su questioni politiche. È d’accordo?

Sono d’accordo. Secondo me non è facile perché il problema è la moltiplicazione e non solo il famoso fact checking. Le fonti e i meccanismi moltiplicativi sono come un’epidemia. Quando è partita una notizia poi fai fatica a fare il tracking perché ci sono le distorsioni che circolano sulle reti. C’è un problema culturale. Sono convinto che la diffusione delle fake news sia una proxy dell’ignoranza e ci fa capire quanto siamo circondati da una profonda ignoranza su certi fenomeni. Credo fortemente che molte persone siano in buona fede ma è altrettanto ovvio che manchi una conoscenza di come funzioni un’economia, una società. Questo è un dramma. Ci sono studi che mostrano che la diffusione di fake news, come quelle sui gilet gialli, sia alimentata da robot, troll. Il 19% dei commenti circolati su twitter sui gilet gialli sono stati generati da no humans. Sulle reti passa di tutto e occorre capire come si fa a controllare.

Dovrebbero fare una legge

Si, però si crea un meccanismo di distruzione del concetto di libertà che queste reti si portano dietro.

Smartworking vs lavoro da casa. Come si porta il vero smartworking in azienda?

Al momento il termine smart è sbagliato. Siamo molto di più sul “lavoro da casa”. Se non c’è dietro un processo di riorganizzazione che trasformi il lavoro da casa in lavoro smart, il primo non è necessariamente smart. Dunque, come prima cosa ci vuole un processo di adattamento dell’organizzazione. Poi, è sbagliato misurare lo smartworking solo sulla produttività perché non genera grandi differenze rispetto al lavoro in ufficio. Il tema vero è sulla capacità innovativa, sulla creatività. L’incontro casuale in azienda “ah, già che ti vedo…” è il grande motore dell’innovazione. Questa cosa non succede se le persone sono chiuse in casa. La produttività la puoi gestire ma la creatività no. Inoltre, ragioniamo un po’ su cosa sia il lavoro. Se noi al lavoro attribuiamo un ruolo costituzionale e poi diciamo che nobilita l’uomo, non sono convinto che stare chiuso in casa ti nobiliti, anche se fai l’amministratore delegato di Eni. Il lavoro non è il tuo task ma il sistema di relazioni che ci sta dietro. Sono molto preoccupato di questa tendenza. Lo smartworking è un’evoluzione dell’organizzazione: se parti da un sistema che già non funzionava, con la sua adozione peggiori solo le cose. Capisco gli effetti positivi come sull’inquinamento e il traffico. Vediamo Milano. Però è uno strano modo, questo, di risolvere il problema dell’inquinamento.

Blocco licenziamenti e ridisegno della struttura aziendale. Qual è la direzione che suggerisce alle imprese del commercio, oggi più colpite, per la situazione attuale e quella post pandemia?

Ci sono due temi. Il primo è di tenuta sociale e il secondo di competitività. È del tutto evidente che il blocco dei licenziamenti serva per far sì che un tessuto sociale, già molto provato, tenga. Oltre ai dipendenti di medie e grandi imprese, ci sono decine di migliaia di artigiani, piccoli imprenditori e commercianti, anch’essi con dipendenti, che stanno soffrendo e soffriranno ancora nei prossimi mesi. Da qui l’intolleranza verso le nuove misure restrittive. Molte categorie sono stanche. Anche la cultura e lo sport. Il blocco dei licenziamenti serve per alleviare queste sofferenze. Certo, non risolve i problemi. Posso dire che in ogni crisi c’è un’opportunità. A parole è molto semplice soprattutto se a dirle è un professore. Un piccolo artigiano che ha perso delle commesse direbbe: cosa significa? Bisogna pensare al fatto che supereremo questo momento. Dobbiamo rimanere in apnea dal punto di vista della liquidità e in questa direzione vanno i famosi ristori. Bisogna però cominciare a pensare al dopo. Occorre pensare che da questa crisi, perché no, possa arrivare qualche idea innovativa, per esempio sull’uso del digitale. Compriamo tutti su Amazon (anche se io personalmente non lo faccio) e quindi la distribuzione deve cominciare a riflettere su questo: dalla rivoluzione digitale possono esserci opportunità anche per i più piccoli.

Come vi siete organizzati in SDA?

Abbiamo investito, e stiamo investendo, in tecnologia già da tempo perché l’industria dell’education sta andando in questa direzione. Il covid ha accelerato i tempi forzando i nostri studenti ed executive ad una fruizione della conoscenza attraverso la tecnologia. La prima cosa che abbiamo fatto è stata dunque quella di mettere quanto più possibile la conoscenza nei canali online sapendo però che è una scelta temporanea. Non ci sarà alcun effetto sostituzione. Sono convinto che il futuro non può che essere ibrido. Dovremo imparare ad utilizzare le cose migliori che la tecnologia ci sta mettendo a disposizione in questi mesi ma dovremo tornare alla vita del campus.

Come si è trovato lei?

Da Dean insegno poco. Posso però dire che insegnare è una chimica. Avere le persone davanti significa molto per un docente. Ma di necessità virtù. Mi sono trovato bene ma non penso e non voglio che ci sarà una sostituzione.

Qual è il ruolo di una Business School oggi?

In Italia, oggi, il ruolo della nostra business school non è molto diverso dal sogno dei fondatori: aiutare leader attuali e futuri, e tutti coloro i quali sentono l’importanza di doversi assumere delle responsabilità, a fronteggiare le sfide di grandi trasformazioni individuali e generali dell’economia. Siamo degli accompagnatori in un viaggio.

Il mercato dell’executive education è caratterizzato dalla presenza di nuovi attori che fino a poco tempo fa non facevano questo mestiere. Sono una minaccia?

Quando vedo nuovi competitors, il termine minaccia non mi piace molto perché sono anche un’opportunità in quanto ci stanno insegnando molte cose. Sono players molto aggressivi e veloci. Hanno però un limite di fondo: non hanno le teste pensanti dietro. Sono in larghissima parte bravi nella conoscenza come commodity. Non sono bravi nel costruire nuova conoscenza. Noi, invece, siamo una business school che si basa su un’università dove la conoscenza si crea. Non basta l’erogazione e la trasmissione della conoscenza. È fondamentale la sua creazione. Il mondo ha bisogno di nuova conoscenza. Nell’industria si creerà una sorta di differenziazione: erogatori e creatori. In passato erano la stessa cosa ma oggi non è più così.

I vari Ranking (Financial Times, Bloomberg, QS, The Economist, Forbes) incoronano SDA Bocconi. Come si arriva a questo traguardo?

Anni fa abbiamo deciso di non essere solo un campione nazionale. Per non esserlo occorre confrontarsi con gli altri. Questo confronto passa non solo per i ranking ma anche per gli accreditamenti. SDA Bocconi si è aperta ad entrambi molto tempo fa. Il ranking è non chiudersi ma aprirsi al mondo perché solo così puoi competere. È come svegliarsi ogni mattina alle cinque per far yoga, è una disciplina: devi applicare sistematicamente quella disciplina. Ci sono dei parametri che ci sfavoriscono. Molti, ad esempio, si basano sulle retribuzioni e in Italia sappiamo essere più basse rispetto agli altri Paesi. Soffriamo di aspetti come questi anche se noi abbiamo un welfare forte. Tuttavia, la partita la giochiamo e siamo felici di farlo anche a nome dell’Italia.

In cosa si riconosce il Made in Italy nella vostra offerta?

Per me Made in Italy significa amore per il dettaglio. Nella nostra offerta, soprattutto quella internazionale, cerchiamo di fare molto leva sulla capacità di lavorare sui dettagli. Inoltre, siccome Made in Italy si identifica con moda, food, arte, meccanica e non solo, evidentemente, abbiamo programmi ad hoc su questi temi.

Non crede che le università italiane, con le loro facoltà economiche, diano agli studenti un’idea di impresa diversa rispetto a quella con cui molti avranno a che fare? Mi riferisco, in modo particolare, al mismatch tra pmi italiana e i giovani che si affacciano al mercato del lavoro.

È una sfida culturale. In Italia dobbiamo riuscire a spiegare che una persona che è scolarizzata, a prescindere dal livello, aiuta l’innovazione e la competitività. Avere in azienda una persona con cultura fa bene. Questo è il messaggio. Le pmi dovrebbero aprirsi. Certo c’è un problema anche legato ai salari ma dobbiamo capire che non è facendo diventare grandi le pmi che diamo più lavoro alle persone. Le pmi possono rimanere tali ma diventare grandi nella testa ed aprirsi di più.

ESG. Proviamo a concentrarci sul welfare aziendale e sui benefit. Qual è il benefit del domani?

Il welfare è sempre più importante. Le varie formule sono indirizzate ad aumentare la lealtà del collaboratore generando un paradosso: da un lato l’idea di essere leale e poi l’idea che alla prima occasione, se non servi, ti mando via. Credo che il vero tema del futuro sia quello di aiutare le persone ad essere sempre pronti alle sfide personali. Il miglior benefit che le aziende possano dare al dipendente è lasciargli il tempo di continuare ad imparare, studiare, guardarsi attorno, frequentare corsi, seminari, eventi. Insomma, lasciare le persone con la possibilità di tenere la mente aperta.

Professore, grazie per il suo tempo!

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Scritto da Vincenzo Lettieri

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