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Il coraggio di sapere di non sapere. Alla ricerca di una dotta ignoranza

“Che cosa dice il dio e a che cosa allude per enigma? Infatti, ho chiara coscienza, per quanto mi riguarda, di non essere sapiente, né molto né poco” (Apologia di Socrate)

L’emergenza legata alla diffusione del Corona-virus ha messo in risalto una questione fondamentale per la ricerca filosofica e, principalmente, per l’uomo in quanto uomo. 

Mi riferisco al coraggio di sapere di non sapere. 

Quello che, in effetti, determina lo stato della nostra peculiarità nel creato, di cui definiamo segni e significati, è la capacità di mai fermarsi e di porsi sulla via della conoscenza. Un tale cammino, nel corso dei secoli, ha utilizzato caratterizzazioni fenomeniche diverse, pur nella cornice di un nascondimento abissale mai pienamente comprensibile, e perciò assolutamente afferrabile. Infatti, la conoscenza, nella fase costitutiva, potremmo dire a fundamentis, mette in dubbio le sue conquiste e attraverso queste, e proprio per questo, se stessa, ridefinendo ogni volta il proprio orizzonte, in una circolazione quasi dialettica di assorbimento di un annullamento. Un orizzonte che, come si è detto, è mai pienamente acquisito, ma solo tollerabile, in quanto “ciò che deve essere sollevato e anche sopportato”. 

Gli uomini, che per natura tendono al sapere, come sosteneva Aristotele, aspirano alla affermazione di sé, attraverso l’utilizzo dello strumento più longevo a disposizione. Usurandosi il corpo e sfiorendo la bellezza, per sopravvivere l’umanità ha potenziato le capacità cognitive oltre misura (e perciò le ha pure esasperate). Ciò ha permesso il progresso nel quale ci muoviamo e che utilizziamo, rendendo la precarietà meno angosciosa rispetto a qualche secolo fa. Grazie soprattutto alla specializzazione dei settori, possiamo contare esperti in ogni branca del sapere. Certamente, l’umanità ha acquisito maggiori sicurezze, esistono migliori prospettive. I sogni sono diventati un pochino meno notturni e iniziano a camminare in mezzo a noi. 

Come risultato ne consegue che un tale percorso di specializzazione e complessità ha trasformato la percezione di noi stessi in esseri siffatti, complessi e specializzati. E come già lamentava Heidegger negli anni ’20, la domanda di senso è andata completamente perduta, o molto probabilmente è diventata troppo scomoda e impegnativa per essere posta. 

Oggi non conta più chi sei, ma che cosa fai. 

La capacità ha superato il fondamento. Anzi lo ha hackerato, attraverso la rimodulazione delle capacità che vengono rimontate, come in un lego senza anima. Il risultato è una persona che non è più tale, ma solo una potenza assoluta plasmata per diventare quel che è utile, senza mai attualizzare il “chi sei”, perché del tutto sconosciuto. 

Per questo motivo la nostra brillante società è anche la più insoddisfatta. Contiamo persone che non vogliono crescere, che vivono nell’illusione di un passato idealizzato e cristallizzato, in una sindrome di Peter Pan generalizzata e difficilmente superabile. 

Che cosa può aiutare l’umanità a ritrovare se stessa? A superare lo stato d’eccezione nel quale vive, che la rende vulnerabile e frantumabile in effimeri e anonimi pezzettini?

Evidentemente, non esistono formule preconfezionate, del tipo: “Fa’ questo, otterrai quest’altro”. Esiste solamente la via della ricerca personale, faticosa. Uno sforzo che deve riappropriarsi della meraviglia, dello stupore, come incipit per gustare e assaporare, riprendendo Campanella, il sapere. Progredendo e progettando se stessi nel senso di mettere in dubbio le certezze, in una costante skepsis che non si annichilisce nel conformismo del bastian contrario, ma che è sprone alla compartecipazione alla costruzione. Perché talvolta la critica si risolve nella coraggiosissima ammissione della propria ignoranza, primo passo per prendersi cura di se stessi, come praticava Socrate. 

Cartesio ci ha insegnato che, utilizzando il dubbio metodico, versione più audace di quello scettico, l’uomo può trovare il proprio fondamento sul quale poi imperniare di significato tutto il resto. Non è un’operazione semplice scavare nelle profondità dell’anima, soprattutto per chi ha barattato il Sé con l’apparenza effimera della massificazione alienata e alienante. 

C’è bisogno di un atto di protesta, rivoluzionario, affinché socraticamente la vita diventi “degna di essere vissuta”. Così, forse, ci accorgeremo che, come scriveva Cusano, “quanto più profondamente saremo dotti in questa ignoranza, tanto più ci avviciniamo alla verità” (Dotta ignoranza).

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