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Tazzulella con Carlo Benetti, Market Specialist di Gam Investments

Carlo Benetti è un uomo di finanza, particolarmente erudito e capace di esprimere, anche attraverso la sua newsletter settimanale “L’Alpha e il Beta” che pubblica ogni lunedì su www.gam.com, punti di vista originali mettendo al servizio dell’analisi degli scenari finanziari, di cui si occupa in Gam Investments (sede di Milano), una vasta, eterogena e vivace cultura.

E’ laureato in Scienze Economiche all’Università di Siena e dopo pochi anni nella rete di filiali di una grande banca italiana ha cominciato la sua esperienza nell’asset management: Senior Portfolio Manager in Pioneer Investment, Head of Institutional Sales per ING Investment Management e Head of Institutional Clients presso Swiss & Global Asset Management.

Ironico e curioso, possiede una forte passione per la lettura e la musica (è stato direttore di una corale polifonica).

Interviene, come ospite, in diversi seminari universitari, conferenze, tavole rotonde e programmi televisivi, a cominciare da quelli di approfondimento economico di alcuni tra i principali tg nazionali con cui collabora.

Dottor Benetti, un profilo che non sembrerebbe in linea con il pensiero comune che vuole, sbagliando clamorosamente, gli uomini e le donne di finanza grigi e focalizzati solo sul denaro e la sua gestione. Quanto sono importanti nel suo lavoro la curiosità e l’erudizione?

E’ un profilo lusinghiero che certamente non merito però è vero ciò che lei dice, la curiosità e la cultura sono importanti a prescindere. Lo avevano capito i Greci nel V secolo a.C.: una comunità di cittadini colti è anche una comunità coesa, tenuta assieme da valori condivisi. Per questo motivo le tragedie e le commedie erano arte per il popolo. Nella catastrofe culturale in cui siamo, ci accorgiamo di quanto i greci avessero ragione. I social media svolgono un servizio benemerito: ad esempio ci fanno “incontrare” e “frequentare” persone interessanti. Hanno, però, favorito una pericolosa orizzontalità delle opinioni: il pensiero dello scemo del villaggio ha la stessa forza di quello dell’esperto. Senza scomodare Eco e la sua fenomenologia dello stupido sui social, si può affermare che sia scattato un meccanismo perverso per cui la conoscenza e la competenza sono state assimilate a saperi castali e quindi qualcosa di cui diffidare. Tom Nichols ha scritto su queste tematiche un libro: “La conoscenza e i suoi nemici: l’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia”. Credo che andrebbe reso obbligatorio nelle scuole.

Venendo all’economia e alla finanza, i più grandi economisti erano anche persone colte ed erano capaci di fare sintesi delle leggi economiche, dei saperi della storia e della sociologia. Keynes su tutti, ad esempio, era anche un esperto di letteratura, membro attivo del Gruppo di Bloomsbury. Più recentemente si è aggiunta la necessità di conoscere anche elementi di psicologia cognitiva. Il lavoro dei premi Nobel Robert Shiller e Richard Thaler va proprio in questa direzione: unire i modelli e i comportamenti economici con le suggestioni e le insidie cognitive, in una parola i bias comportamentali.

Venendo infine al ruolo di chi si occupa di gestione del risparmio e di consulenza finanziaria, è a mio avviso impossibile trattare seriamente la materia dei mercati finanziari, dei portafogli di investimento, senza avere qualche nozione di psicologia cognitiva, le trappole mentali inducono in errori costosi, di storia, dato che il passato non si ripete ma fa rima per dirla con Twain. E non si possono non avere conoscenze di geopolitica visto che i grandi cambiamenti economici passano da sommovimenti storici e politici. I macro fenomeni hanno conseguenze sui risparmi dei singoli investitori.

La storia come insegnamento e le vite, reali o meno, dei suoi protagonisti come esempio. I libri il veicolo di trasmissione di tutto questo. Come nasce a sua passione per la lettura?

Questa domanda mi riporta a quando ero piccolo. Ho avuto la fortuna di crescere in una casa con molti libri. Ho imparato a leggere su “I Quindici”, una mini enciclopedia degli anni Sessanta, di quindici volumi appunto, per bambini. Leggevo quello che trovavo in casa, senza ordine: Montanelli, addirittura Andreotti, molti libri di storia e poi, negli anni del liceo, i grandi classici. Devo confessare, però, che la mia più grande “sconfitta” nella lettura è l’Ulisse di Joyce: non sono mai riuscito a terminarlo.

Cosa sta leggendo adesso?

Viviamo un tempo di isolamento: in questo contesto la lettura diviene lo strumento più potente per stare uniti gli uni agli altri, è un ponte solidissimo che fa vibrare le nostre emozioni insieme a quelle di migliaia di altre persone che avvertono le medesime emozioni leggendo le stesse pagine.

In questi giorni sto terminando il divertente “Happydemia” di Giacomo Papi, “Il futuro del capitalismo” di Paul Collier e poi, siccome prima di dormire leggo solo gialli, la scomparsa di John Le Carrè mi ha fatto riprendere “La spia che venne dal freddo”. In sottofondo ho ricominciato, con poche pagine al giorno, la “Ricerca” di Proust.

Che libri suggerirebbe a un investitore, a un risparmiatore?

Sono usciti da pochissimo tre libri di brave giornaliste economiche di cui mi onoro essere amico e  che apprezzo molto: “False verità: nove incrollabili dogmi di economia e finanza in bilico dopo la pandemia” di Carlotta Scozzari, “Investire è facile (anche nei momenti difficili)” di Debora Rosciani e Mauro Meazza, “Anno zero d.C.”di Mariangela Pira.

Il 2020 è cominciato con i dazi e i proclami anti Cina da parte degli Stati Uniti. Trump diceva: “Dobbiamo staccarci dall’economia della Repubblica Popolare e riportare la produzione industriale di beni in America”. A novembre, però, l’export cinese verso gli USA è aumentato del 46,1%. Cosa sta accadendo?

La Cina è la seconda più grande economia mondiale, la prima se la misuriamo nei termini di parità del potere d’acquisto e ha la maggiore popolazione. Quando parliamo della “Terra di Mezzo” è buona norma tenere sempre conto delle sue dimensioni. Dopo due secoli di interruzione della sua storia bimillenaria la Cina sta riprendendo la perduta centralità: questa è la lettura che danno i cinesi dal loro punto di vista e di cui si dovrebbe sempre tenere conto.

Dopo aver fatto della Cina l’obiettivo preferito a cui attribuire la responsabilità di tutti i guai dell’economia americana, Trump ha smesso di parlare del deficit commerciale perché la guerra commerciale, “giusta e facile da vincere” secondo quel tweet del marzo 2018, in realtà è stata persa.

Gli accordi della “Fase 1” siglati a gennaio vennero salutati dai mercati con entusiasmo in quanto sgomberavano dal tavolo un forte elemento di incertezza. Ma non hanno retto alla prova della verità e la pandemia ha poi cambiato le condizioni del gioco. La Cina avrebbe dovuto acquistare quest’anno merci USA per circa cento miliardi di dollari, principalmente beni agricoli, ma ne ha comprati meno della metà. Dall’altra parte abbiamo l’economia americana che si sta riprendendo e con la ripresa dei consumi continuano gli acquisti di beni dalla Cina.

L’economia cinese e lo status del Paese non sono aggirabili o ignorabili. La via della cooperazione è l’unica percorribile, non quella della chiusura e dell’antagonismo esasperato.

Cosa accadrà con Biden?

Probabilmente i cinesi avrebbero preferito ancora Trump perché prevedibile e, soprattutto, perché ha lasciato loro molto spazio. La competizione tra Stati Uniti e Cina è destinata a proseguire soprattutto sul piano della primazia tecnologica. Con il piano Vision 2035 la Cina mira ad avere una forte indipendenza per quanto riguarda la tecnologia: non parliamo più di magliette o di macchine che fanno magliette, parliamo di intelligenza artificiale, di machine learning, di veicoli a guida autonoma. In questo senso la competizione è destinata a continuare. Cambieranno i registri dei rapporti diplomatici e possiamo aspettarci un recupero del rapporto con l’Europa in chiave di un “fronte atlantico” unito nel confronto con la Cina ma, ripeto, sono convinto che il dialogo franco, sulle questioni commerciali ma anche sui diritti umani (non lasciamo sola l’Australia!), sia la strada giusta per trovare punti di equilibrio alti.

Il covid, il crollo iniziale delle borse, lo spavento, gli aiuti da governi a imprese e famiglie e il supporto da parte delle banche centrali. I mercati finanziari, l’esuberanza. Le saracinesche, i consumi, l’occupazione, gli investimenti. Il mercato è quello che è e mai ciò che dovrebbe essere. I cambiamenti però ci saranno e la loro forza non dovrà essere sottovalutata. Qual è la sua visione in merito? Cosa dovremmo aspettarci?

Divido in due la mia risposta. Nel 2020 abbiamo notato una divaricazione tra Main Street, l’economia della lamiera e del bullone, e Wall Street, l’economia della carta. Mentre la domanda crollava, come raramente abbiamo visto in tempi di pace, le borse, dopo qualche settimana di sbandamento, hanno avviato un rally che ha bruciato nuovi record. Andando però a vedere meglio dietro la sintesi inevitabile degli indici, scopriamo che questa divaricazione non è poi così pronunciata in quanto la corsa degli indici è stata guidata in larga misura dai titoli della tecnologia. Quindi la divaricazione tra indici ed economia reale forse è meno vera di quanto appaia perché la tecnologia è stata favorita dalle condizioni in cui ci siamo trovati: pensiamo ad esempio alle infrastrutture informatiche. D’altro canto, settori fortemente penalizzati dai lockdown come il turismo, gli aerei, le crociere, gli hotel, l’energia e l’industriale, in borsa hanno pagato pegni pesantissimi. Quindi, in realtà, lo scollamento tra economia reale ed economia “di carta” non è così vero come appare.

Detto questo, venendo al Covid-19, devo dire di non aver mai creduto alla retorica della pandemia come forza palingenetica, agli slogan “ne usciremo migliori”. Tuttavia è vero che il Covid-19 è un acceleratore di fenomeni già presenti e in questo senso sì, costituisce una rottura. Il crollo dei mercati in marzo ha messo fine alla fase espansiva più lunga della storia recente partita nel 2009. È vero che poi la borsa ha ripreso la sua marcia, ma su presupposti diversi: siamo in una fase nuova, accelerano le transizioni digitale e ambientale, si affermano nuovi modi di lavorare, è in corso la ristrutturazione delle catene globali della fornitura e così via.

Vedo tre orizzonti temporali nei quali formulare ragionamenti di investimento. Uno di brevissimo termine (2-3 trimestri) in cui la predominanza sarà ancora del Covid-19. In questi mesi i tempi e le dinamiche dei mercati saranno dettati dalla distribuzione e somministrazione del vaccino, dalla risposta immunitaria delle persone, dalle possibili mutazioni del virus di cui in realtà abbiamo già cominciato a parlare. Il secondo orizzonte temporale è di medio termine (2-3 anni), in cui la predominanza sarà dell’intervento governativo. Una delle novità portate dal Covid 19 è un nuovo interventismo e una maggiore presenza dei governi nella gestione dell’economia. Il terzo e ultimo orizzonte è il lungo termine che, per definizione, è imprevedibile. I governi hanno a disposizione risorse enormi. Se queste saranno gestite con intelligenza, potrebbero portare ad una nuova pagina della storia dell’uomo facendo leva sulla gestione delle tre grandi transizioni in corso: demografia, digitale e ambiente.

Il futuro non è nel grembo di Giove. Il futuro è nelle azioni e nelle scelte che si fanno oggi.

Il vaccino si sta cominciando a somministrare solo in questi giorni e non ancora ovunque. La cura, non fisica ovviamente, è stata sinora il debito: necessario, vitale per il presente ma pericoloso per il futuro delle famiglie, delle aziende, delle banche e degli stati. Stiamo conoscendo dimensioni mai viste prime del debito. Sarà, questo, il nuovo paradigma a cui dovremo abituarci oppure la crescita futura, che dipenderà in larga parte dalle capacità dei governi, sarà tale da riportare le cose al loro posto?

Mi auguro che sia “la seconda che hai detto”, come diceva Quélo, il cialtronesco profeta di Corrado Guzzanti. Il segno “zodiaco-economico” dell’immediato futuro è quello della ripartenza. Cina e area asiatica sono già ripartite. Nel 2021, verosimilmente, seguiranno l’Europa e gli Stati Uniti. Nel medio periodo torneremo a fare i conti con il debito. Noi abbiamo sperimentato un modello di crescita fondato sul debito che si è schiantato nel 2008. Non è il caso qui di riprendere tutta la storia di allora però, da quel momento in poi, il debito, sia privato che pubblico, è aumentato. La pandemia lo sta ingigantendo e le stime sono di una crescita del 360% del PIL mondiale, diretta conseguenza delle misure espansive necessarie per sostenere, per quanto possibile, un crollo inaudito della domanda. Sono dell’idea, però, che il rimedio al debito non siano la Moderna Teoria Monetaria o la stampa di moneta in quantità “più spudorata che disinvolta”. Penso che il rimedio più efficace al debito sia la crescita, sostenibile e durevole. Ad esempio, l’Europa ha le risorse del Next Generation EU: investimenti in attività che favoriscano la crescita di lungo termine e che mettano le economie nelle condizioni di “ballare da sole”. Dunque investimenti in istruzione, ricerca, infrastrutture, transizione digitale, sviluppo di energie pulite.

Il debito si sostiene quando il costo del suo servizio è inferiore al tasso di crescita. Se c’è crescita, anche un debito enorme diventa gestibile.

Lo ha appena menzionato. In Europa, green e digitale sono due dei principali temi che emergono come indirizzo di investimento per i governi. Dovrebbero guidare la crescita per i prossimi decenni. Nei progetti dei singoli governi i giovani sono menzionati poco o molto. Il nostro, ad esempio, li cita ben poco nonostante il livello di disoccupazione giovanile e altro. Auspicabilmente, i progetti che saranno avviati riguarderanno implicitamente i giovani. Ma è giusto darlo per scontato o ci stiamo perdendo qualche pezzo?

No, in realtà bisognerebbe esplicitarlo. Innanzitutto non perdiamo di vista che i fondi europei si chiamano Next Generation e questo ne ricorda le finalità: risorse e investimenti non per abbellire gli arredi della Farnesina, dico una cosa a caso, ma per dare ai giovani condizioni che favoriscano il loro inserimento nel lavoro.

Quando poi si dice, ad esempio, “facciamo la Netflix italiana”, si trascura l’importanza degli investimenti privati. Facciamo invece in modo che il pubblico favorisca gli investimenti privati, che non sia il governo a fare la nuova Netflix, ma siano gli imprenditori a decidere se e come farla. Come? Rimuovendo gli ostacoli: semplificazione della burocrazia, snellimento dei tempi della giustizia civile e, magari, il riordino complessivo della fiscalità. “Vaste programme”, mi viene da dire!

Inflazione. Cosa dovremmo aspettarci prossimamente?

L’inflazione è l’altra faccia del debito. Direi che nell’ultimo decennio è stato il convitato di pietra. Ma nel Don Giovanni il Commendatore, il convitato di pietra, alla fine si presenta e irrompe nella cena che Leporello sta servendo al suo padrone. L’inflazione invece, nonostante politiche monetarie ultra espansive e una massa di liquidità riversata nei mercati dei capitali come mai prima, non si è ancora presentata. Si tratta di una grandezza economica cruciale perché le valutazioni azionarie sono appese al livello basso dei tassi di interesse, a loro volta sensibili all’inflazione. Teniamo conto che l’inflazione potrebbe costituire la soluzione politicamente indolore per diminuire il peso reale del debito senza aumentare le tasse o tagliare la spesa pubblica. Quindi, potrebbe ripresentarsi quella situazione di, mi passi il termine tecnico, “repressione finanziaria” che abbiamo conosciuto nel secondo dopoguerra quando l’inflazione era però controbilanciata dalla crescita della produttività e dalla diffusione del benessere. Non sono sicuro che oggi si ripresentino quelle condizioni. Un’altra considerazione è legata alla demografia: alcuni ricercatori hanno individuato una relazione positiva tra tasso di dipendenza e inflazione. Se cresce quella parte di popolazione che non lavora (pensionati e studenti) che dipende da una forza lavoro che si contrae, allora aumenta l’inflazione.

Nel libro “The Great Demographic Reversal”, gli autori Goodhart  e Pradhan e sono giunti proprio a questa conclusione, prevedono un’inflazione superiore al 5% già nel prossimo anno.

Ora, non vorrei essere frainteso: i due autori sono molto accurati nella descrizione dei fenomeni epocali che abbiamo davanti agli occhi ma sono forse affrettati nelle conclusioni perché è sempre un po’ azzardato pronosticare le possibili conseguenze nel mondo reale delle dinamiche di fenomeni globali. Quando si parla di storia, di sociologia, di umanità, non valgono le leggi deterministiche che regolano invece la fisica o la biologia. E’ sempre un azzardo tentare di estrapolare il futuro dal presente perché si tende a sottostimare le probabilità che nel futuro si verifichino grandi cambiamenti.

In conclusione, direi che l’inflazione non è un problema dell’agenda di oggi ma potrebbe essere uno dei rischi del prossimo futuro. Parafrasando Mark Twain le direi che la notizia della scomparsa dell’inflazione è fortemente esagerata.

Stiamo imparando tutti a conoscere l’acronimo ESG (Environmental, Social e Governance). Sono pronti di più le società o gli investitori che in queste allocano risorse?

Sono ottimista, direi che siamo pronti un po’ tutti: la sensibilità dei consumatori e gli atteggiamenti delle società. L’etimologia della parola finanza deriva dal latino finis che significa architettura dei fini. La finanza è strumentale al raggiungimento di un obiettivo.

Alla fine del diciannovesimo secolo, l’innovazione dell’epoca fu la ferrovia. Se non ci fossero stati un sistema finanziario in grado di raccogliere capitali, l’intuizione di Stephenson di trasformare la macchina a vapore in una locomotiva sarebbe rimasta solo una meraviglia della tecnica. Invece la finanza permise di raccogliere denaro e convogliarlo in investimenti che consentirono di stendere migliaia di chilometri di rotaia e la ferrovia fu il motore dello straordinario sviluppo degli ultimi decenni del XIX secolo.

Oggi la nuova frontiera sono gli investimenti ESG. Abbiamo un solo pianeta e il nostro dovere è quello di renderlo vivibile con uno sfruttamento intelligente delle risorse. L’economia va in questa direzione e la finanza la supporta: non credo il fenomeno ESG sia una moda destinata a passare ma un fenomeno destinato, per fortuna, a restare. Anche in GAM i criteri ESG negli investimenti sono presi in massima considerazione. “There is no business to be done on a dead planet”, non si fanno affari in un pianeta morto diceva David Brower.

Giovani. Prendendo spunto da un numero de “L’Alpha e il Beta” le chiedo: cos’è per il loro futuro più pauroso e cosa più pericoloso?

Più pauroso è la scarsa visibilità di prospettive. Ciò che però è davvero pericoloso è che le generazioni che li precedono, anche la mia generazione beninteso, facciano errori irreparabili nella gestione delle risorse che in realtà sono destinate a loro. Anzi, destinate a voi, considerando la sua giovane età!

Grazie per il suo tempo dottor Benetti.

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Scritto da Vincenzo Lettieri

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